Marco Tizianel, classe ’67, si dedica al teatro dal 1989. Si forma con Vasco Mirandola, Giancarlo Previati, Maria Grazia Mandruzzato, Ted Keijser, Giovanni Fusetti, Michela Lucenti e vari altri. Come attore partecipa a numerose produzioni che spaziano dal teatro di strada, al teatro per ragazzi e per la prima infanzia, al teatro di ricerca. North b-East è il suo primo lavoro come autore.
Silvio Barbiero, classe ’72, si forma presso il T.P.R., C.U.T., e con Maria Grazia Mandruzzato, Naira Gonzales, Michele Sambin, Pierangela Allegro, Michela Lucenti, Juri Ferrini, Matteo Destro, Boris Ruge, Maurizio Ciccolella, Federica Granata, Roberto Anglisani, Massimiliano Civica, Serena Sinigaglia Carlos Alsina, Andrea Brunello e altri ancora. North b-East è il suo primo lavoro come autore.
L’associazione culturale Carichi Sospesi nasce a Padova nel 1998 con l’intento di promuovere laboratori di animazione teatrale nel disagio psichico e fisico, di produrre spettacoli teatrali, sperimentare nuovi linguaggi e nuove tecniche. Nel 2003 viene aperto il circolo culturale, un luogo di incontro e di confronto per creare un teatro aperto, in grado di accogliere oltre agli spettacoli e ai corsi anche una forma di socialità, di contaminazione in cui le idee siano circolari e non debbano trovare terreno di confronto solo attraverso momenti di spettacolarità. A oggi la programmazione invernale teatrale e musicale delle ultime cinque stagioni ha ospitato oltre 250 compagnie e gruppi. www.carichisospesi.com
In moltissimi, ieri sera, hanno raggiunto il Bastione Alicorno per farsi “interrogare”da Yoshi Oida, indiscusso maestro della scena teatrale internazionale. Sono trent’anni che l’attore-regista giapponese gira il mondo proponendo ai suoi spettatori domande assurde ed illogiche, insieme al musicista-fisico tedesco Dieter Trüstedt, che riesce a creare una ‘colonna sonora’ con gli strumenti e gli oggetti più disparati, e, con la sua presenza discreta, completa il quadro essenziale dell’allestimento.
Interrogations, presentato in prima nazionale in una nuova versione, prende ispirazione dai Koan, quesiti antichissimi che i maestri dei monasteri Zen pongono agli allievi come esercizio di meditazione. Il clima dello spettacolo è molto lontano dal silenzio rispettoso di quei luoghi, anche se molti sono i momenti in cui Oida regala al pubblico, giocando con quattro sottili bacchette di bambù, performance dal sapore orientale, offrendo un sublime esempio di controllo perfetto del corpo e di racconto gestuale. Ma l’aspetto spirituale dei quesiti è accantonato a favore di una rilettura di questi testi in chiave beckettiana. Come ammette, infatti, lo stesso interprete, i Koan hanno suscitato in lui grande interesse proprio per il loro carattere straniante: la stessa forza che ritrova nei testi di Beckett o Ionesco, ma in versione nipponica.
Per esempio, mostrando il dorso della mano, chiede: “questo è il dritto o il rovescio?”.
Non sono importanti le risposte, ma le domande: esse creano il legame, ludico ma forte, tra attore e spettatore. I quesiti sono il filo che unisce i partecipanti all’evento, sono lo strumento che fa scaturire la condivisione di un pensiero. Oida trasporta lo ‘spazio vuoto’ di Peter Brook nella drammaturgia, dove sono le parole stesse a stimolare l’immaginazione e la creatività degli spettatori. In totale libertà perché non c’è una risposta giusta, determinando, così, un clima di spensierata e piacevole partecipazione.
foto di Claudia Fabris
Yoshi Oida, passando dal francese, tradotto in tempo reale da Rosaria Ruffini, a frasi in italiano stentato, recitate con chiara autoironia, costruisce uno spettacolo di difficile descrizione. Forse, come gli allievi dei monasteri Zen che meditano sulle risposte ai Koan, molti impiegheranno anni per capirlo davvero, altri probabilmente non lo capiranno mai. Ma tutti ricorderanno di aver condiviso la rara piacevolezza di un’ora senza regole e logica. Perché, come dice Oida, “ogni giorno conta. Anche oggi”.
Recensione a Una vita importante – Maria Sole Mansutti / Paolo Civati
foto di Andrea Cravotta
Sono coraggiosi Maria Sole Mansutti e Paolo Civati nel proporre uno spettacolo sulla vita di Maria, tema che implica responsabilità e racchiude molti rischi: le facili banalità, l’eccessiva santificazione della Vergine o al contrario la sua dissacrazione. Invece il testo e la regia di Civati propongono, con dolcezza e semplicità, l’infanzia e la crescita della piccola Maria, bimba speciale per il mondo che la circonda e che troppo presto la tratta da adulta. Maria Sole Mansutti – sola in scena – è il cuore e l’anima di Maria. L’attrice, con tangibile spontaneità, ricrea situazioni di intimità concreta che avvicinano il pubblico alla sensibilità e alla percezione del mondo di questa donna: dalle antipatie o simpatie verso le sue compagne al tempio, le prime vergogne ed eccitazioni, l’attesa del promesso sposo, la naturalezza dei dialoghi con l’angelo nel candore dei loro incontri.
Alla soglia della desiderata vita coniugale con l’amato Joseph, ecco l’inattesa visita di un angelo: solo lei può sentirlo – ma il pubblico sa bene cosa le sta rivelando. L’espressione di stupore che gradualmente trasforma il suo viso, seguita da “come è possibile, non conosco uomo”, bastano a completare un quadro noto, ma ora ricreato con freschezza grazie ad una Maria nuova, vicina agli spettatori. I nove mesi della gravidanza bruciano in scena sotto forma di fazzoletti bianchi che, accendendo i loro cuori d’incenso, inebriano i sensi e trasformano la scena, che ora profuma di sacro. Il parto – in piedi – viene sofferto e vissuto attraverso corpo e voce della Mansutti che, amplificando col microfono la sua febbrile testimonianza in dialetto friulano, la rende ancor più intima. Dato alla luce il bimbo, la giovane madre confessa che non ci saranno sere più belle per lei dopo questa. Con occhi vivi e brucianti, lucente di calore e rigata dal sudore, dona al mondo la sua creatura girando il suo corpicino ancora sporco – solo immaginato – verso il pubblico. Il resto della storia è noto a tutti, e sembra, infatti, superflua l’apparizione finale della croce di luce bianca, che la giovane sfiora con uno sguardo all’improvviso consapevole e spaventato dal doloroso destino che la attende.
foto di Andrea Cravotta
Lavoro scenicamente essenziale: una stanza bianca, nella quale la narrazione procede a sequenze semplici, intervallate da una curata dimensione sonora e una sempre signifacativa scelta nell’uso della luce, che diviene immensa ad ogni sorriso di Maria. Lo spettacolo è toccante e riesce a riproporre un tema sacro con tenerezza e umanità: con Una vita importante, il mondo infantile della piccola Maria diviene vicino, tangibile e immaginabile.
Celesterosa è un’associazione culturale sorta nel marzo 2007 per iniziativa di Georgia Galanti e Silvio Castiglioni. Elabora progetti dedicati alle arti sceniche, visive e performative e alla cura e alla pubblicazione di libri lavorati anche artigianalmente. Tra i progetti realizzati si ricordano: Viaggio in Armenia (2006), Casa d’altri (2007), Il Rumore del Tempo, Di fronte al dolore degli altri (2007), I capelli d’oro del diavolo (2008); le mostre di Georgia Galanti Ore quotidiane, L’isola dei pensieri felici, Brodo di Giuggiole; la cura della pubblicazione dei seguenti volumi: Io e il mio papà di Georgia Galanti, Nuages (Milano, 2007); Casa d’altri di Silvio D’Arzo, disegni di Georgia Galanti, con la riduzione teatrale di Andrea Nanni, Nuages (Milano, 2008), Cartoline da Mompracem, da Emilio Salgari, di Georgia Galanti e Giovanni Guerrieri. www.silviocastiglioni.com/celesterosa.html
Paolo Civati e Maria Sole Mansutti sono rispettivamente di Como e Udine. Si incontrano a Roma nel 1999 all’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” dove studiano recitazione. Ultimati i tre anni di percorso comune, Civati inizia a collaborare, come attore, con diverse compagnie e registi, tra cui: Teatro Del Carretto, Giorgio Barberio Corsetti, Manuela Cherubini e Jan Fabre. È l’incontro artistico con il lavoro di Fabre che lo spinge ad iniziare una personale ricerca registica con altri attori. Maria Sole Mansutti prosegue invece la propria formazione con artisti tra cui Antonio Latella ed Emma Dante. Contemporaneamente collabora con alcuni giovani registi e avvia un percorso lavorativo in video. Tra i lavori svolti partecipa alla pellicola La ragazza del lago di Andrea Molaioli. Nel 2008 Civati e Mansutti scelgono di rincontrarsi per sviluppare lo spettacolo Una Vita Importante.
Recensione a Tragedia tutta esteriore – quotidiana.com
foto di Claudia Fabris
Ho sentito qualcuno del pubblico dire che questo era lo spettacolo più assurdo visto negli ultimi dieci anni; dove assurdo sta per astratto, ironico e senza senso.
Due persone si guardano negli occhi per un’ora: potremmo descrivere così questo spettacolo. Questa affermazione potrebbe trasmettere un forte dubbio sulla riuscita teatrale dell’opera; ma è così, e funziona. Un uomo, una donna, vestiti di bianco, racchette da ping pong alla mano. Uno spazio – impossibile dire vuoto – bianco e asettico, un cubo di luce. Silenzio. Il primo impatto visivo è forte. È blu, è bianco, è nero: non si sa. Totale incapacità di definire l’immagine: è straniamento. Qualcosa di simile a quello che si prova davanti a Quadrato bianco su fondo bianco di Malevich, ma che assorbe e attira dentro, come il blu monocromo di Klein. Un dialogo, serrato e impersonale, racconta il triste consumarsi di due vite, legate, forse, ma certamente esauste, l’una dell’altra. Un ossimoro, che allontana e al contempo coinvolge; il pubblico ride al cinismo di alcune battute, e ne viene toccato proprio dall’apatia ricercata con cui si esprime questo lento sgretolarsi. La sensazione è quella d’uno stillicidio, violenza compressa, veleno, tacita esasperazione, un amore nato morto, un amore che affatica, che svuota dentro.
Prosegue questo gioco di ruoli, i due personaggi, racchette alla mano si passano “la palla” in attesa della prossima mossa, pronti al massacro: “colpiscimi ed io ti colpirò”. Tutto nella completa assenza, un bianco non bianco, non un inizio né una fine; forse senza senso. Tragedia tutta esteriore, invece, nasce dalla necessità di trovare un senso, di creare una forma che colpisca ancor prima del significato delle parole. Roberto Scappin e Paola Vannoni si dichiarano completamente senza radici «I nostri spettacoli erano politici e pieni di significato, risultavano pesanti. Abbiamo voluto togliere tutto, è stato un atto di rabbia, anche nei confronti del Teatro. Abbiamo pensato di fare una cosa totalmente inutile, priva di riferimenti. Il testo è nato cosi, da solo, stavamo anche venti minuti seduti in silenzio con davanti una telecamera». Inevitabile non pensare a Beckett, in particolare a Finale di partita, nella versione offerta da Franco Branciaroli: stessa luce, stesso bianco asettico. Certo, due esperienze diverse, forse assolutamente sconnesse. L’immaginario beckettiano è forte, nonostante gli artisti neghino ogni influenza esterna. “Senza radici”, ormai, è un concetto troppo astratto, per il teatro contemporaneo ormai lontano da qualunque tipo di derivazione, ma pur sempre ancorato ad un substrato dell’immaginario passato. Quotidiana.com ha dimostrato di saper stupire, di entusiasmare e trasmettere, proponendo il contrario, giocando perversamente sull’attrazione per il vuoto, che muove ogni essere umano, l’assenza, la crisi, l’apatia.
Recensione a Una vita importante – Maria Sole Mansutti / Paolo Civati
foto di Andrea Cravotta
“Signore, non farmi essere speciale. Volevo solo essere me stessa, ma me stessa era speciale”. Una battuta dello spettacolo Una vita importante, che sintetizza il personaggio protagonista del lavoro: Maria, la madre di Gesù. In una scena semicircolare, completamente bianca, un’intensa Maria Sole Mansutti racconta al pubblico una storia molto conosciuta, ma che la riscrittura di Paolo Civati riesce a rendere incredibilmente nuova. Attraverso i vangeli apocrifi, l’immaginazione e la bravura dell’interprete, quella che viene presentata è una Maria appena adolescente, piena di dubbi, speranze, fantasie per un futuro che non sa essere già stato stabilito.
Considerata un dono di Dio fin dal suo concepimento – i genitori per lungo tempo non riuscirono ad avere figli – questa bimba si ritrova, a soli tre anni, ad essere considerata speciale da tutti. Per lei non si può scegliere un marito qualunque, serve un segno divino che indichi l’uomo prescelto. E così Maria, elevata – o ridotta – ad icona da secoli, torna a mostrare il suo lato più umano e realistico, che è proprio quello che la rende una figura così speciale. Si dispera capricciosa, correndo in tondo, gesticolando con poco garbo – su una musica tutt’altro che sacra ma perfetta -, proprio come farebbe una semplice ragazza che vorrebbe una vita normale. La scena dell’annunciazione, poi, superato il momento di sorpresa alla notizie, Maria scoppia in una gioia sfrenata illuminata da una luce strobo per nulla dissacrante, ma, al contrario, esuberante e commovente allo stesso tempo. La Mansutti, inoltre, arricchisce il suo personaggio anche con il suo dialetto friulano, che carica la scena del parto di umanità ed umiltà, riportando il sacro momento ad una dimensione più intima e femminile.
foto di Andrea Cravotta
Peccato, forse, per l’apparizione luminosa della croce sul finale, che scaraventa in pochi attimi i vangeli ufficiali sulla scena, ricordando il fin troppo conosciuto destino a cui Maria è predestinata. Una vita importante si è rivelato, comunque, una vera sorpresa. Riuscire a rendere originale, divertente e commovente una storia che viene ripetuta da duemila anni non era impresa facile, ma Maria Sole Mansutti e Paolo Civati, con creatività, rigore e, forse, un po’ di incoscienza, sono assolutamente riusciti in questa interessante impresa.
Recensione a Il silenzio di Dio – progetto di Silvio Castiglioni, produzione Celesterosa e I Sacchi di Sabbia.
Silvio Castiglioni porta in scena Il silenzio di Dio, un progetto in due atti. Il primo, Casa d’altri, è tratto dall’omonimo racconto di Silvio D’Arzo, il secondo Domani ti farò bruciare è ispirato invece al capitolo Il grande inquisitore de I fratelli Karamazov di Dostoevskij.
In scena solo tre microfoni ad asta e rigido, in piedi, vestita di lungo abito ecclesiastico, la figura di un eccessivamente alto prelato echeggia quella del vicario de La monaca di Monza rappresentata nel ’67 da Luchino Visconti. Da lassù, posizione privilegiata, il funzionario di Dio, consiglia, giudica o lascia correre, esercitando la sua professione di sacerdote in un piccolo paese di montagna. Tutto procede senza intoppi fino a quando una vecchietta lo pone di fronte a una domanda a cui egli non può rispondere: e se lei volesse uccidersi? Il tema del suicidio visto con gli occhi di un’anziana signora, stanca delle fatiche quotidiane e spaventata dal protrarsi della vecchiaia, cammino in salita verso la morte, ci appare qui in tutta la sua drammaticità.
Silvio Castiglioni, foto di Andrea Cravotta
Ad essa fa da contraltare lo spregiudicato cinismo di un demone, protagonista del pezzo successivo. Il seguace di Lucifero, intraprende una sagace invettiva contro Gesù Cristo accompagnata dalla comicità con cui cerca di gestire il prorpio corpo, dal fare legnoso, che gli sfugge continuamente. Lo accusa di aver abbandonato gli uomini a se stessi, di aver voluto dare loro la libertà, senza farsi carico del rischio che questa decisione comportava, d’aver deciso per loro ma senza conoscerli, perché se li avesse conosciuti avrebbe capito che, tanto deboli quanto sono, così agendo, li avrebbe condannati, non certo salvati. Ciò che facilmente accomuna i due testi è la mancanza di una risposta “dall’alto”, ma interessante è il loro accostamento anche nel momento in cui questo porta a rileggerli uno in funzione dell’altro. Ed è allora che ci si accorge di come entrambi facciano riflettere, partendo da presupposti diversi, principalmente su due aspetti.
foto di Andrea Cravotta
Da una parte l’inadeguatezza della Chiesa e del mondo religioso, da sempre troppo distante dalla vita reale per comprenderne difficoltà ed esigenze, dall’altra il libero arbitrio, strumento che ci rende sì liberi di scegliere, ma che al tempo stesso ci incatena alla logica per la quale unici colpevoli dei nostri peccati saremo sempre e solo noi. Un’arma a doppio taglio che, rende decisamente ostico il rapporto tra umano e divino. Mirabile prova d’attore di Castiglioni che, sebbene parta sotto tono in entrambi i pezzi, poi recupera ritmo e riesce a catturare l’interesse degli spettatori, mostrando anche un’estrema capacità di controllo corporeo, tanto nella ricerca dell’immobilità in posizioni innaturali, quanto nella mimica contorta e nella gestualità scomposta, attentamente studiata, che caratterizzano la sua interpretazione del demone.
Recensione di Tragedia tutta esteriore – quotidiana.com
foto di Claudia Fabris
Staticità, lentezza, specularità e vuoto: questi alcuni dei principali elementi di un lavoro fresco, surreale e raggelante. La giovane compagnia dei quotidiana.com crea un lavoro innovativo, che ritrova le sue radici nel teatro dell’assurdo beckettiano, ma che allo stesso tempo si spinge oltre, portando la sua assurdità alla deriva. Tragedia tutta esteriore propone un tipo di surrealismo imbevuto di insensata quotidianità, facendolo diventare la reale rappresentazione di una coppia ormai stanca, che non riesce a comunicare, ma che continua a provocarsi: proprio qui si consuma la tragedia. Un uomo e una donna seduti l’uno di fronte all’altra si sfidano, attendono immobili, si fissano e mai si sfiorano. Roberto Scappin e Paola Vannoni sono semplicemente loro stessi, non fanno una piega; sono bravissimi nel tenere i loro corpi immobili nella stessa posizione, o muoverli in maniera rallentata, in perfetta sincronia per alzarsi o per eseguire piccole gestualità prive di significato, che rendono la situazione ancora più straniante.
Ritorna in mente il film di Michael HanekeFunny Games, dove due giovani entrano in una casa con delle mazze da golf, vestiti rigorosamente di bianco, e giocano gratuitamente al massacro con i proprietari. In Tragedia tutta esteriore i protagonisti, immersi nelle luci fredde dei neon posti lungo la spoglia scena, hanno in mano due racchette da ping pong e dei vestiti candidi; ma non vi è nessuna violenza fisica tra di loro: niente è mostrato visivamente, l’accanimento verso l’altro è esclusivamente verbale, è presente nei loro dialoghi, nelle loro idee perverse, nelle parole dette e nelle domande poste che difficilmente trovano un filo conduttore tra di loro. Gli argomenti trattati spaziano tra diverse tematiche in modo del tutto casuale: si parla di un Dio single, di ritocchi estetici, di Divina Commedia, di categorie sociali privilegiate a cui porre delle punizioni, del proprio corpo come carne d’allevamento e della morte. E poi pause fatte di lunghi silenzi, mentre i due si guardano negli occhi, gelidamente, come se fossero pronti a sbranarsi l’un con l’altra.
Nonostante abbiano delle visioni opposte, riescono ad essere perfettamente speculari, alternando i loro dialoghi spesso ironici e divertenti a frammenti di pensieri ripetuti all’unisono: “Perché mi guardi negli occhi?/Perché tutto è bianco./ Perché mi guardi negli occhi?/ Perché tutto è nero.”
Esprimono il vuoto dell’esistenza, l’inutilità di condurre una vita dove non si è ‘diventati qualcuno’ o dove non si è capito il mondo. Ma come si può averlo compreso, quando è questo il primo ad essere pieno di contraddizioni e assurdità. La vita stessa è un paradosso e nel lavoro dei quotidiana.com essa diventa inutile, una ‘qualsiasi vita di nessuno’, dove la tragedia è della propria esistenza, internamente svuotata di significato.
Le previsioni meteo, ieri, promettevano tempesta: i tre spettacoli in cartellone – Una vita importante, di Paolo Civati e con Maria Sole Mansutti; Tragedia tutta esteriore, di quotidiana.com; Il silenzio di Dio, di Silvio Castiglioni – sono stati tutti allestiti all’interno del Bastione Alicorno, con solo brevi intervalli tra le diverse rappresentazioni. Da questa piccola maratona teatrale è scaturita la serpeggiante sensazione di un filo conduttore che ha in qualche modo unito i tre angusti spazi del bastione, aprendo la possibilità – nonostante l’estrema diversità dei lavori – ad una riflessione più generale.
Lo sguardo, in assoluta coerenza con il tema del Festival, guarda al cielo, ma attraversa gli astri per cercare di vedere oltre: cosmologie che si allontanano dalla scienza per interrogare la religione. Se la Mansutti dipinge una Vergine Maria umanissima ed adolescente, i Quotidiana rompono i loro silenzi con le più disparate domande, tra cui alcune, irriverenti ed esilaranti nel loro straniante susseguirsi, sull’esistenza di Dio. Castiglioni, invece, affianca al monologo di un prete, senza parole di fronte una donna che vorrebbe suicidarsi, l’invettiva di un demone dietro cui si cela Il GrandeInquisitore di Dostoevskij.
Lavori che esternano un desiderio di un Dio più umano, credibile, vicino; un Dio con “i piedi per terra’”. In questo anno galileiano in molti sembrano volere puntare il telescopio sul pianeta Terra, anziché guardare all’universo e chiedersi cosa “move il sole e l’altre stelle”. Come se il mistero avesse ormai esaurito tutto il suo fascino, stanchi di un Dio che non risponde alle domande, che non si manifesta se non attraverso riti e catechesi ormai desueti e svuotati. Alla richiesta di elevarsi verso Dio, rinunciando a ciò che della natura umana ci tiene maggiormente ancorati al terreno, si potrebbe rispondere con una domanda: perché non scende, un po’ Dio verso di noi? Forse a lui costerebbe decisamente meno fatica. Ci si sentirebbe, così, meno soli. Una domanda appena sussurrata attraverso il sorriso splendido della Madre di Gesù della Mansutti, che si fa più esplicita nelle dissertazioni psuedoteologiche e ‘tutte esteriori’ di Roberto Scappin e Paola Vannoni, per essere, infine, urlata da Castiglioni.
Quello che viene dipinto è un uomo con le sue necessità più umane, vere, concrete. Un uomo spinto dalle contingenze a guardarsi intorno più che verso l’alto. Un uomo stanco di risposte insoddisfacenti, sermoni e paternali che trova nella libertà di dubitare la sua essenza, la sua forza, seppur, spesso, non la felicità.
Le alte guglie delle cattedrali gotiche non impressionano più, i discorsi alle finestre non convincono, anzi, spesso, risuonano troppo lontani dalla realtà, contro ogni bisogno umano. Il “mentire in maniera intelligente” ammesso con orgoglio dal Grande Inquisitore, rappresentante di un sistema tutt’oggi saldo e potente, forse è un po’ stato smascherato in questa ricerca di un uomo che assomigli un po’di più a se stesso. Un uomo che non si vuole più vergognare delle sue necessità più basse: vengono in mente dei versi di Bertolt Brecht, dalla sua Opera da tre soldi, che, con ironia, spiega questo concetto con sintetica semplicità:
Voi che alla retta via ci esortate
e ad evitare il fango del peccato
prima di tutto fateci mangiare
e poi parlate pure a perdifiato.
Voi che alla nostra ciccia tenete e al nostro onore,
date ascolto, sappiatelo, è così:
solo saziato l’uomo può farsi migliore!