L’associazione Ottavo Giorno opera a Padova dal 1997 per realizzare progetti di teatro e danza che favoriscano l’integrazione di artisti diversamente abili sulla scena, attraverso una loro partecipazione diretta all’attività didattica e alla creazione artistica. Scopo di Ottavo Giorno è dare opportunità di espressione alle potenzialità creative di tutte le persone, nel pieno rispetto delle differenze.
Dal 2005 il Gruppo di Teatro Integrato diretto da Nicola Coppo e Marina Giacometti, è impegnato nella realizzazione di spettacoli e performance.
Otello è il diverso, lo straniero venuto da un indefinito ‘oriente’ che, convertitosi al cristianesimo, nella Repubblica Veneta riveste un ruolo rispettabile (generale a capo di un esercito) ed è innamorato – ricambiato – della fanciulla più bella della città. Una posizione davvero invidiabile, soprattutto da chi è invece balbettante e in continua attesa di promozione: Iago, il quale, non riuscendo a trovare realizzazione, concentra le proprie energie al solo scopo di distruggere l”immigrato”.
Scegliere di mettere in scena l’Otello di Shakespeare oggi, sopratutto nel nord est d’Italia, dove più è concentrato un pensiero politico di diffidenza e ostilità verso l’altro – l’immigrato extracomunitario – non può essere una scelta non consapevole. Infatti la compagnia Pantakin da Venezia sceglie, ad esempio, di citare le “ronde”, inneggiate assieme alla Lega dal vecchio veneziano Pantalone.
I livelli narrativi, infatti, sono molteplici: inizialmente il pubblico si scopre ad osservare una compagnia di comici dell’arte che scelgono di mettere in scena l’Otello. Ovviamente a modo loro, con Arlecchino e Pantalone a completare la cerchia dei personaggi shakespeariani.
Utilizzando un interessante e duttile struttura scenografica lignea (che ricorda un castello per bambini), con cambi di costumi e di scena a vista, prende vita la storia nella storia. In una ritmica narrazione non priva di interruzioni causate dagli stessi comici che, per un litigio o un commento, riportano a galla il livello sottocutaneo della rappresentazione. La finzione è esplicita: dall’uso delle maschere messe e tolte in continuazione, a quello della sentinella-fantoccio che ha il solo compito di essere uccisa e spostata, fino ai simbolici nastri rossi sventolati ad ogni pugnalata. È un teatro che vuol condividere, senza celarla, la dimensione ludica e pura della finzione, in una inesorabile e, a volte, crudele trasformazione in sempre nuovi personaggi, che a lungo andare rischia di rendere fantasma ogni attore.
foto di Claudia Fabris
Funziona il lavoro drammaturgico di Roberto Cuppone, che convince nel non facile compito di fondere storie e tradizioni teatrali differenti e riuscendo, al contempo, a rivolgersi al pubblico attuale. Le belle maschere di Stefano Perocco di Meduna e Roberto Ledda sono molto espressive, inquietanti e piene di fascino; i bei costumi di Licia Lucchese sono duttili e fiunzionali. Aiutato dall’innegabile magia del Bastione Santa Croce, lo spettacolo diretto da Michele Modesto Casarin convice e rapisce un pubblico divertito e sinceramente coinvolto che ringrazia di cuore gli abili attori e i caldi musicisti del gruppo Calicanto, che assieme a Roberto Kriscak hanno fatto risuonare il vento notturno di Padova.
Reatino, classe 1974, Massimiliano Civica è uno dei più giovani direttori artistici italiani. Dopo una laurea in Lettere, svolge un percorso formativo composito che passa dal teatro di ricerca (seminari in Danimarca presso l’Odin Teatret di Barba) alla scuola della tradizione italiana (si diploma in regia presso l’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”) per poi compiere un apprendistato artigianale presso il Teatro della Tosse di Genova (a contatto con il sapere scenico di Lele Luzzati e la fantasia di Tonino Conte). Da queste esperienze elabora una visione del teatro che esalta il ruolo dell’attore, vero protagonista dell’evento teatrale. Prende parte come attore o regista alle produzioni di diversi teatri, come gli spettacoli di massa e all’aperto del Teatro della Tosse (I Persiani alla Fiumara, Gli Uccelli di Aristofane presso la Diga Foranea del porto di Genova; Pantagruele e Panurgo alla Palestra Liberty di Piazza Tommaseo, gli spettacoli estivi al Forte Sperone), gli spettacoli per ragazzi del Teatro del Piccione di Genova, gli eventi internazionali del Teatro Potlach di Fara Sabina nel Progetto Internazionale Città Invisibili. Tra i suoi spettacoli come regista la prima nazionale di Serenata di Slawomir Mrozek a Genova, il saggio di diploma dell’Accademia L’Arte d’Amare al Teatro Valle di Roma, lo spettacolo Un leggero malessere di Harold Pinter. Nel 2002 produce e dirige lo spettacolo Andromaca di Euripide, con Andrea Cosentino, cui fanno seguito Grand Guignol e La Parigina. Vince i premi Lo Straniero e Hystrio – Associazione Nazionale Critici Italiani, nel 2007, per la sua attività teatrale. Nello stesso anno affianca Tonino Conte alla direzione artistica della Tosse; il suo ultimo spettacolo, Il mercante di Venezia (prodotto dalla Fondazione Teatro Due di Parma), ha vinto il Premio Ubu 2008 come migliore regia.
Recensione a U Tingiutu – un Aiace di Calabria – Scena Verticale
foto di Claudia Fabris
Aiace, Achille, Agamennone, Ulisse: questi i nomi dei protagonisti di U Tingiutu, di Scena Verticale, spettacolo andato in scena ieri sera al Bastione Alicorno in prima nazionale. Ma nessuna tragedia greca in versi accademicamente recitati: Dario De Luca, ideatore, drammaturgo e regista del lavoro, scaraventa l’antico mito Sofocleo nella Calabria corrosa dalla ‘ndrangheta. Sangue, onore e cocaina sono i veri protagonisti. Sgarri e vendette si susseguono all’interno di un’agenzia di pompe funebri che è anche sede di una cosca mafiosa.
La particolare costruzione drammaturgica, fortemente cinematografica – con un inizio in flashback e alcuni salti temporali -, accattiva il pubblico che – nonostante alcune difficoltà di incomprensione per l’uso del dialetto calabro – segue con trasporto questa ennesima storia di malavita. Pur intravedendola, perché, esclusa la prima scena, la quarta parete è chiusa per tutto lo spettacolo da tende veneziane. Questa tragedia moderna è sotto gli occhi di tutti ogni giorno, ma in molti devono, o vogliono, far finta di non vedere. E così lo spettatore si ritrova come ‘al sicuro’ aldilà delle tende, lontano da quel mondo che non gli appartiene, ma non può non lasciarsi coinvolgere emotivamente. Forse un assaggio di quella maledizione che, scrive De Luca, «in Calabria si chiama “contiguità”. Quella cosa terribile che costringe onesti e disonesti, mafiosi e non mafiosi a vivere fianco a fianco».
foto di Claudia Fabris
In questo racconto, oltre alle efficaci musiche originali composte da Gianfranco De Franco e Gennaro “Mandara” de Rosa, una radio accompagna le truci vicende, cantando canzonette di Pupo, Vasco e Morandi. E proprio le prime battute di una canzone di Morandi – Un’anno d’amore – assumono improvvisamente, sull’immagine della strage finale, un significato altro, che spiazza: «uno: non tradirli mai, han fede in te» – come se fosse il primo, sacro, comandamento dei clan mafiosi.
Grazie anche ai suoi colleghi di scena (Rosario Mastrota, Ernesto Orrico, Fabio Pellicori, Marco Silani) – tutti decisamente all’altezza dell’impresa con un’interpretazione autentica, De Luca costruisce, con una regia semplice e genuina, quasi un film neorelista. Un bel film, che punta la macchina da presa negli angoli più bui della terra calabra, mettendo a fuoco delle verità scomode che tutti sanno e tacciono. La tragedia, così, si svuota degli eroi per narrare le vicende di una Magna Grecia tristemente più attuale, vivente, straziata da omini che non hanno decisamente nulla di eroico.
Chiara Guidi nasce a Cesena nel 1960. Laureata in Lettere Moderne, comincia l’attività teatrale durante gli anni del Liceo assieme ad alcuni amici, tra cui Romeo e Claudia Castellucci, con i quali fonda, nel 1981, la Socìetas Raffaello Sanzio. Si è occupata soprattutto del ritmo drammatico delle rappresentazioni e ha curato diverse regie. Il suo lavoro ha formato tutta la parte recitativa delle opere della Compagnia componendo, insegnando e seguendo il lavoro vocale e recitativo di ogni attore. Nell’ambito di un progetto triennale che la vede collaborare con Enrico Casagrande/Motus ed Ermanna Montanari/Teatro delle Albe, dal 3 al12 luglio 2009 dirigerà il Festival di Santarcangelo di Romagna.
La figura geometrica di un quadrato incontra una sfera e intuisce, con sospetto, che possa esistere un mondo a tre dimensioni: alieno, inestricabile, inconcepibile. Tutto il racconto appartiene interamente a una terra piatta, e con perfetta coerenza descrive l’ambiente e la vita di esseri schiacciati che neanche immaginano un’altra dimensione. Il linguaggio ritrae un mondo complesso, formato da un meccanismo coerente che diventa oggetto di conoscenza: il mondo del piatto. L’assurdità di un mondo mai considerato, se non astrattamente, perché ritenuto monco, anzi impraticabile, è assorbita nella lucidità di una scrittura che descrive la realtà a due dimensioni.
recensione a Passaggio Urbano – associazione Ottavo Giorno
foto di Andrea Cravotta
Una dozzina di attori e i musicisti della Piccola Bottega Baltazar – contrabbasso, chitarra, 2 fisarmoniche e, per un attimo, un hang – creano un percorso nel centro storico di Padova, partendo da piazza Cavour per arrivare alle scalinate del Municipio. Il Gruppo Teatro Integrato è composto da ragazzi e ragazze abili e diversamente abili. In un gioco di improvvisazioni corporee alternate a coreografie prefissate, con il costante sostegno della musica, i silenziosi attori creano immagini di semplice e disarmante poeticità. Una coppia di innamorati si rincorre con un mazzo di fiori, un lento corteo lascia alle sue spalle bigliettini per chi li segue, un tango porta con garbo fino alla danza sui gradini, fatta di imitazioni e variazioni sulla medesima sequenza.
Si assiste al lavoro di questi attori, e lentamente si scopre come ogni corpo abbia un suo personalissimo modo di muoversi nello spazio. Quando il corpo è lasciato libero di esprimersi senza pregiudizi o tecniche prestabilite, non si può più parlare di abilità e disabilità, ma di pura unicità. Questo Passaggio Urbano, lungi da buonismi retorici, aggiunge al festival una piccola ma importante riflessione sul corpo scenico. Una teatralità insita nella presenza umana in scena, ed un’armonia del movimento raggiungibile per le più disparate e meno convenzionali vie di ricerca.
Yoshi Oida nasce in Giappone e, a soli 12 anni, muove i primi passi nel teatro Kyogen e nel teatro Noh (forme di teatro tradizionale giapponese). Nel 1968 incontra a Parigi Peter Brook e poco dopo entra a far parte del C.I.R.T. (Centre International de Recherche Théâtrale) creato dal regista inglese, diventandone uno degli elementi fondanti e partecipando a tutte le esperienze del Centro: dai celebri viaggi, alla maggior parte delle creazioni teatrali. È stato interprete di molti spettacoli di Brook: Orghast, The Conference of the birds, The Iks, The Mahabharata, La Tempête, The Man Who, Qui est là?, Tierno Bokar. Dal 1975 è anche regista e ha diretto numerosi spettacoli teatrali (Interrogations, The Tibetan Book of Deads, The Divine Comedy, Madame de Sade di Yukio Mishima, Finale di Partita di Samuel Beckett), di opera lirica (tra gli altri Nabucco di Giuseppe Verdi, Winterreise di Franz Schubert, Death in Venice di Benjamin Britten, Il mondo della luna di Joseph Haydn, Don Giovanni di Mozart) e di danza (LesBonnes tratto da Jean Genet con Ismael Ivo). Lavora costantemente alla riduzione drammaturgica e alla regia di testi e racconti provenienti dalla tradizione giapponese (Kayoï Komachi, The Story of Kantan e Han-Jo tratti da testi del teatro Noh, Fiori di Riso Fiori di Fango tratto da testi del Kyogen, The Hunting Gun, The Woman in the Dune da novelle giapponesi). Oida è anche attore cinematografico (I raccontidel cuscino di Peter Greenaway, The eyes of Asia di João Mario Grilo). Ha scritto e pubblicato L’attore fluttuante, L’attore invisibile e, recentemente, L’acteur rusé. Da decenni trasmette la sua esperienza teatrale con stage e seminari in tutto il mondo.
Recensione a Sade: opus contra naturam – regia di Enrico Frattaroli
Per incontrare il Marchese de Sade, sinistro ed, ormai, leggendario autore libertino, il pubblico dei Teatri delle Mura deve compiere una sorta di discesa agli inferi nell’antro buio e freddo del bastione Alicorno. Ad attenderli Enrico Frattaroli, regista e protagonista muto di questo lavoro, che, perfettamente calatosi nei panni del personaggio a cui ha dedicato una pentalogia, con agghiacciante disinvoltura ci guida nei meandri più oscuri della filosofia di Sade.
foto di Andrea Cravotta
Attraverso un crescendo di violenze ed abusi ad un rappresentante del clero (Galliano Mariani), il marchese prende voce grazie a due filosofi (Franco Mazzi, Anna Cianca) che, dissertando sulla natura umana, la religione ed il libero arbitrio, tessono in scena un discorso articolato e complesso. Con forza rivendicano il dispotismo nella lussuria come un’inclinazione naturale dell’uomo: non assecondarla sarebbe andare contro natura. Si scagliano contro chi emana leggi atte a vietare o correggere i gusti umani, contro la giustizia e le religioni, in nome di un ateismo elevato pericolosamente a nuova fede. Sembra, infatti, di assistere al sanguinario rito di una setta, che si erge a difensore della natura umana. Un credo che vede l’uomo naturalmente predisposto alla crudeltà, all’assassinio, al sopruso. L’umanità, la pietà, l’amore non sono innate nell’uomo: gli uomini sono sempre morti per le opinioni, fomentate da chi voleva spargimenti di sangue.
È infatti innegabile che immani crimini siano stati compiuti in nome di Dio o di alti ideali, come ci ricorda una ghigliottina – inquietante strumento per diffondere libertà, fratellanza ed umanità – nel macabro sarcasmo del finale. Ma il pensiero lucidamente esposto in scena si incrina di fronte a una presa di posizione priva di sfumature, che dipinge una natura umana abbietta e semplificata: de Sade generalizza il suo essere a tutta l’umanità. Il risultato è un enigma, l’uomo, che resta completamente irrisolto ed inafferrabile; nonostante i numerosi ragionamenti dedicategli nell’opera. Sade: opus contra naturam è un
foto di Andrea Cravotta
lavoro che può scandalizzare, indignare, interessare ma che non può passare inosservato. Non solo per la violenza sessuale crudamente mostrata in scena – senza esibizionismo ma con estrema coerenza con l’opera e la vita del Marchese – quanto per un cast che, tra immagini forti, sfrenate e complicata filosofia, non si risparmia mai, dando vita ad un lavoro di indubbia intensità.
Recensione a Sade: Opus contra naturam – regia di Enrico Frattaroli
L’uomo, per natura, desidera soddisfare delle necessità, tendendo ad essere egoista, ben lungi dall’istinto di occuparsi altruisticamente del prossimo. Nel mondo animale ne è una dimostrazione il cerchio della vita: lo stesso agnello ammetterebbe che il lupo deve mangiarlo, è naturale così come lo è la crudeltà e il piacere che se ne prova compiendola.
foto di Andrea Cravotta
Questi alcuni tra i concetti che Enrico Frattaroli ripropone con SADE: OPUS CONTRA NATURAM, Voyage en Italie, Padova. Tramite estratti dall’opera del Marchese de Sade, il regista propone un dialogo filosofico fuso ad un rituale di erotica e sadica tortura che ha al centro proprio l’uomo e i suoi desideri naturali, nella sua condizione di essere che non ha facoltà di autodeterminarsi, ma che è in balia di un’esistenza che si compie da sé, seguendo equilibri incomprensibili.
Il pubblico è coinvolto fin dal suo ingresso a questo rito, accolto da nude ancelle che sostengono candelabri e osservano imperturbabili gli spettatori cui è stato concesso di assistere. Dopo un primo e crudele assaggio di chi è Sade, dimostrato con il rapido incontro e truce assassinio di una fanciulla, viene portato in scena il principale oggetto e vittima della serata: un prete (Galliano Mariani). A dialogare tra loro e col pubblico, illustrando le teorie libertine – a volte con grande ironia – , sono i padroni di casa: i due filosofi (Franco Mazzi e Anna Cianca), che fungono da testimoni e spettatori a loro volta del rituale. Le discussioni e le azioni che seguono, prendono vita dal confronto tra le opposte ideologie di prete e filosofi. Il marchese – interpretato da Frattaroli – con tremenda volontà di dissacrare e ferire, soddisferà inesorabilmente ogni suo erotico, masochistico e sadico desiderio.
Davanti agli occhi dello spettatore vengono compiuti sia atti di indolore soddisfazione erotica (tramite i sensi di olfatto e gusto), e atti di intensa violenza condensati in immagini di innegabile impatto, attuate utilizzando strumenti di tortura o semplicemente mani e denti. Erotismo inflitto, agito su vittime impotenti o sulle consenzienti collaboratrici all’orgia, compiuti con cura e gustati dal marchese con pesato vigore. Tali azioni e dissertazioni appaiono capricci di nobili personaggi e del loro ospite che partecipa praticamente al loro filosofeggiare, ma senza mai esprimersi a parole. Agisce silenziosamente, concedendo solo un’aspra risata di compianto e disprezzo per l’umanità che lui, in quel momento, si ritrova letteralmente tra le mani.
Il Bastione Alicorno risponde perfettamente alla creazione di un’atmosfera da setta orgiastica, una cantina degli orrori che sembra abituata ad ospitare intime torture. Lo spazio è sfruttato totalmente (dal balcone, ai tre corridoi) scenografia composta dai numerosi candelabri e dagli oggetti di tortura. Il suono, frutto delle composizioni in midi-device di Enrico Venturini, è una componente suggestiva fondamentale che scandisce i ritmi rituali e puntualmente accompagna la dinamica delle tensioni che si animano in scena.
foto di Andrea Cravotta
È innegabile la volontà di sconvolgere lo spettatore, ogni tortura è agita con intento di raggiungere la verosimiglianza, senza allusioni o astrazioni. Il pubblico è conseguentemente scosso (alcuni spettatori abbandonano la sala a differenti ondate) o incredulo, forse alla ricerca di una distanza dalle scene cui assiste, cui non vuol credere, ma si ritrova immobile e impotente testimone. Unica ribellione, la possibilità – appunto – di andarsene.
A termine dal rituale-spettacolo, il pubblico rimanente si ritrova stranito e combattuto: si chiede se dovrebbe applaudire a termine di una tortura culminata in beffante omicidio e quindi se esprimere gratitudine, ammirazione e approvazione a termine di tali e forti atrocità. Ma, dopotutto, chi – meno empatico e sensibile – vede principalmente il compimento di una spettacolo teatrale, non può non riconoscere bravura e preparazione a bravi professionisti. Ecco l’applauso.