Recensione di Amleto – regia di Pietro Carriglio
Giunge alla sua tappa veneziana, al Teatro Goldoni, l’Amleto di William Shakespeare nella versione proposta dal Teatro Biondo Stabile di Palermo sotto la guida di Pietro Carriglio.
Amleto è un capolavoro drammaturgico complesso e intenso che offre costantemente rinnovate e mutevoli letture. Il principe di Danimarca è icona di intelligenza e sensibilità incomprese e anche l’Amleto proposto da Carriglio è un uomo in crisi, disgustato da ciò che lo circonda, solo. Ma è anche un uomo in cui si scatenano rabbia e aggressività insolite, a tratti inspiegabili.
L’atteggiamento di Amleto – interpretato da un intenso Luca Lazzareschi – sembra una forzatura rispetto al principe intimamente ferito, che emerge dal testo shakespeariano. Stupisce infatti vederlo aggredire la madre, Gertrude, e maltrattarla al punto di mimare una violenza sessuale, rivelando inequivocabilmente un rapporto morboso. La regia vuole accentuare notevolmente una lettura edipica – non nuova – del principe danese, ma sparisce il rispetto di Amleto nei confronti di una madre che ama e la sofferenza che, proprio per questo amore, deriva dalla consapevolezza della nuova incomunicabilità nata tra loro.
Già dalla lettura del testo shakespeariano emerge che Amleto non può condividere con Gertrude il disprezzo per il nuovo re e che la distanza delle loro visioni sul successore al trono – e al letto – dell’amato padre, è fonte di grande sofferenza. Il principe non condivide la scelta della madre e crede che non le renda onore; per questo la ferisce, la punge con impertinenza e parole pesanti, provocando il suo senso di colpa. La accusa di aver perso la facoltà di discernere, rimproverandole la sua debolezza di donna. La fa soffrire e l’aggredisce, si. È disgustato da ciò che è successo (la morte del padre e il rapido matrimonio della madre con lo zio, Claudio) e – forse – disorientato dall’aver appena ucciso l’uomo sbagliato dietro la tenda. Sempre per questo amore le chiede di cambiare, di togliere la sua parte peggiore e allontanarsi dal nuovo sposo, a partire da quella notte.
Così come perplime questa eccessiva rudezza morbosa di Amleto, indispone l’inconsistenza di una regina (col volto di Galatea Ranzi) fin troppo giovane che incarna la donna fragile e impotente. Ama e subisce indiscriminatamente, priva di quella sensibilità forte e incrollabile che altre Gertrude del passato hanno portato in scena (ad esempio la magnifica e regale Natasha Perry nella versione The Tragedy of Hamlet firmata da Peter Brook nel 2000). Svanisce la materna sofferenza di una donna matura, devota e rispettosa di ruoli e valori ed emerge, invece, una Gertrude priva di pudore e dimentica della dignità di regina e madre che si arrende con mollezza ai propositi del figlio. Claudio (interpretato da Luciano Roman) incarna l’uomo di potere superbo e viscido, innamorato di se stesso e accomunato ad Amleto unicamente per il poco rispetto e amore verso Gertrude.
I caratteri, marcati dalla lettura di Carriglio, emergono privi delle molte sfumature che appartengo al testo, rimanendo netti contorni di personaggi svuotati.
In scena attori di grande esperienza, tra cui spiccano: Nello Mascia (in una molto convincente versione di Polonio); l’energia intensa di Luca Lazzareschi (il principe danese) e la concreta e comunicativa Eva Drammis (nel non facile ruolo di Ofelia). Diffusa tra i protagonisti una recitazione cadenzata e molto tecnica che li priva di naturalezza e mette quindi a rischio la credibilità dei loro personaggi.
Carriglio – scenografo e costumista oltre che regista dello spettacolo – propone una scena apparentemente semplice: una pedana quadrata inclinabile. Risulta però raramente significativa la mobilità del piano praticabile, che forza la narrazione a sottostare alle sue caratteristiche. Discutibili anche gli effetti sonori come il battito del cuore (forse il cuore del fantasma?) che si odono ad ogni cambio di pendenza della pedana, suoni forse necessari a coprire il ronzio del sistema meccanico utilizzato. Inutili estetismi che, sia nell’uso dello sfondo illuminato ( mutevole, ma superfluo), nei costumi (frutto di ambiziose mescolanze culturali) e nelle musiche proposte da Matteo D’Amico, non convincono per poca pertinenza con le azioni in scena e per la poca organicità tra i linguaggi.
Lo spettacolo non annoia, il ritmo è vivo. (Apprezzabile quindi la scelta di presentare una versione del testo di quasi quattro ore.) Sfuggono, purtroppo, le scene di maggior pathos – le più delicate da gestire perché dense di accadimenti – : nel probabile tentativo di risultare incalzante e travolgente, la regia brucia attese ed eventi che andrebbero forse guidati e calibrati con maggior precisione, in modo tale da permettere agli spettatori di gustare appieno le scene più tragiche e forti.
Il potere del testo shakespeariano vince comunque: il pubblico non risparmia applausi.
Visto al Teatro Goldoni, Venezia
Agnese Bellato