Sorvegliare e punire è sicuramente uno dei testi più conosciuti del filosofo e storico francese Michel Foucault: l’autore analizza in questa sede la nascita delle prigioni e le diverse forme di punizione che si sono via via succedute nel corso della storia. Ci si chiede cosa avrebbe da dire circa gli sviluppi più recenti della vita carceraria. In molti dei suoi testi − a partire da Storia della follia nell’età classica fino allaStoria della sessualità − Foucault si è interessato a temi rilegati in una sorta di zona grigia dei saperi umani. Ne emerge con forza una riflessione sul “diverso”, su ciò che tendiamo sempre a recludere in luoghi lontani dalla vista, dalla vita quotidiana, nonostante l’appartenenza di questi universi al nostro vissuto: prostitute, “pazzi”, carcerati, sono passeggeri oscuri di una società che li vuole lontani da sé, nascosti nella notte o nelle mura di edifici appositamente costruiti per “nasconderli” al mondo. Ipocritamente, viene da pensare, se pensiamo ai principi di uguaglianza e rispetto per la diversità rivendicati da tanti. Eppure la diffidenza verso il “diverso” fa parte della nostra quotidianità e il pregiudizio si fa bandiera di certe parti politiche anche molto influenti nel panorama italiano. Ed è così che si afferma soprattuto un’idea di “diversità” come “minaccia”, che si discosta nettamente dal senso di umanità propugnato nelle società civili.
Pierangela Allegro (1), attrice e performer della compagnia TAM Teatromusica, scrive sul sito della compagnia che «il teatro, arte meno individuale delle altre in quanto prevede una creazione collettiva mettendo in moto energie di relazione, può essere una scoperta affascinante, destabilizzante e provocatoria in un contesto in cui si è portati necessariamente al proprio tornaconto, al proprio affrancamento, alla libertà individuale per sopravvivere»:queste parole esplicitano l’importanza di un laboratorio teatrale in carcere. La conferenza stampa, che ha avuto luogo all’interno della stessa Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova, oltre ad approfondire il significato di questa affermazione, ha fatto emergere il senso più profondo di questo tipo di lavoro. L’esperienza ha avuto origine da una collaborazione tra la compagnia e l’Amministrazione pubblica nel 1992, inizialmente sotto la guida di Michele Sambin e Pierangela Allegro mentre, a partire dal 2004, la conduzione è passata a Maria Cinzia Zanellato e Andrea Pennacchi, che si trovano oggi, in tempi di tagli e crisi, a lottare per proseguire questo cammino.
Balza subito all’occhio che la maggioranza degli attori/detenuti è di origine straniera, da qui la scelta di creare dei percorsi artistici in grado di «favorire un incontro interculturale, di socializzazione e di costruzione di relazioni, per le persone detenute e al di fuori del loro nucleo di appartenenza», come indicato nel materiale preparato per la conferenza stampa. Un aspetto evidenziato dai reclusi che aderiscono al progetto, ma tanto più enfatizzato dal gruppo di persone che prendono parte al laboratorio di Teatro Civile promosso da TAM Teatromusica. Se infatti le parole dei carcerati colpiscono per la necessità che scaturisce dal partecipare ad un’iniziativa di questa portata, sono quelle dei ragazzi che entrano in contatto con loro che chiariscono il senso definitivo di tale operazione: troppe volte ci si dimentica che il carcere costituisce una parte della società, o meglio ancora, una sua conseguenza. Ricordano infatti i detenuti che, di fatto, chiunque è un potenziale criminale, ma molto spesso ce ne dimentichiamo − basti pensare alle notizie di cronaca che rivelano come persone apparentemente tranquille si trasformino in realtà in assassini, ladri e altro ancora, e ai criminali legalizzati di cui ci parlano i personaggi del “controsistema”. L’incontro con i carcerati si trasforma così in qualcosa che fa emergere il lato più umano di ciascuno, non per un senso di pietà o di compassione, ma perché costringe ad un’autoanalisi che fa riaffiorare la coscienza dell’errore, o almeno, della possibilità di commetterlo. Al di là di qualsiasi giudizio, il lavoro condotto all’interno della Casa di Reclusione Due Palazzi non cerca di indagare le cause della colpa, ma di scavare nel vissuto delle persone che si trovano coinvolte nell’esperienza, permettendo loro un dialogo con chi sta “fuori”: uno spazio con il quale non sarà più possibile instaurare una relazione senza fare i conti con la propria condizione di “carcerato”. Questa distanza richiama alla mente quello che Foucault definiva come “vergogna” o “deportazione”, indicato come uno dei quattro tipi di pena possibile (insieme al lavoro forzato, allo scandalo pubblico e alla legge del taglione). Scrive infatti: «in fondo la punizione ideale sarebbe semplicemente quella di espellere le persone, di esiliarle, di bandirle o di deportarle». E forse vederla nella prospettiva di una deportazione (perdonatemi la ripetizione, ma nessun sinonimo può restituire il senso di questo termine) ci può far riflettere su come la società percepisca lo “spazio carcere”: un luogo remoto, che in nessun modo comunica con la realtà quotidiana. Proprio per questo motivo più importante di tutto il processo di rieducazione e di reinserimento è la possibilità di dialogare che si instaura tra le due “dimensioni”. Un’esperienza che si articola in diversi momenti e tipi di attività, dalla realizzazione di cicli di incontri culturali all’interno del carcere, sino alla messa in scena di uno spettacolo presso la casa di reclusione stessa e presso il Teatro delle Maddalene. Ed ecco che per i detenuti è possibile ascoltare e parlare con Giuliana Musso, Tiziano Scarpa, Vasco Mirandola e altri personaggi di rilievo impegnati in esperienze di teatro civile, mentre all’interno del laboratorio preparano il momento in cui saliranno sul palco − inutile ricordare la complessità della burocrazia atta ad ottenere i permessi necessari ad abbandonare per poche ore o (in rari casi) una giornata gli stipatissimi locali della reclusione. Va inoltre sottolineato che proprio del 2010 è Annibale non l’ha mai fatto, spettacolo presentato in diversi festival e che si è conquistato il terzo posto del Premio Off 2010 promosso dal Teatro Stabile del Veneto e dal Teatro Verdi. Oltre ai riconoscimenti ufficiali, il momento della messa in scena costituisce indubbiamente un evento essenziale per il completamento del percorso intrapreso dai detenuti. Sentimentalmente lo si potrebbe leggere come una possibilità per queste persone di “respirare aria libera”, cadendo però nuovamente in una lettura pietosa e caritatevole che tende a tracciare linee di divisione e non di avvicinamento. L’incontro si presenta piuttosto come un’occasione per abbattere confini e divisorie, e recuperare così la sincerità di un dialogo con chi ha scelto − o è stato costretto − a percorrere una strada che mai si potrebbe pensare di seguire nel corso della propria vita. Farid, Giovanni, Sam, Mohammed e gli altri trenta detenuti che annualmente gravitano attorno al progetto riacquistano così un volto, un nome, un’individualità, stracciando la semplice etichetta di “criminale” sotto la quale vengono indistintamente accomunati, in un tentativo forse di farli cadere in un oblio collettivo, che, comodamente, mantiene pulita l’immagine di una società “democratica e civile”.
Giulia Tirelli
(1) correzione in seguito alla segnalazione dell’autrice di un errore (ora corretto) presente nel sito della compagnia