Sono tante le stabilità anomale che ha generato quella che fu la Romagna Felix: un movimento esplosivo, fra gli anni Ottanta e Novanta, che si ripresenta oggi in forme differenziate di radicamento, dalla stabilità “corsara” del Teatro delle Albe – che, oltre alla celebre attività annuale della non-scuola, gestisce il Rasi e l’Alighieri per la prosa – e Fanny & Alexander a Ravenna – che ha sviluppato una propria vocazione laboratoriale e di programmazione con l’Ardis Hall e le Artificerie Almagià –, alla neonata cooperativa E production, che, formata da Fanny & Alexander, gruppo nanou, Menoventi, ErosAntEros con il proposito di condividere idee e risorse, sta già dimostrando un profilo ampiamente progettuale e propositivo sul territorio; fino alle numerose iniziative in forma di festival e rassegne, da quelle della cesenate Socìetas Raffaello Sanzio a Crisalide di masque teatro a Bertinoro e Ipercorpo di Città di Ebla a Forlì. Proprio queste due ultime realtà, che negli ultimi anni si sono distinte non solo per la ricerca artistica, ma anche per un intenso e continuativo lavoro di stimolo e proposta rispetto al proprio territorio, sono al centro di una trasformazione che conduce dalle dense giornate di festival a un orientamento di più ampio respiro: dalla stagione 2013, Lorenzo Bazzocchi di masque e Claudio Angelini di Città di Ebla co-dirigono, assieme a Claudio Casadio e Ruggero Sintoni, la sezione dedicata al contemporaneo del Teatro “Diego Fabbri” di Forlì (leggi l’articolo). La rassegna, che prende forma il venerdì sera ogni volta con un doppio appuntamento, porta in città alcune delle compagnie più interessanti della ricerca italiana (dai Santasangre all’Accademia degli Artefatti) e internazionale.
La serata inaugurale, venerdì 25 gennaio, vede succedersi al Teatro Comunale e al Piccolo gli ultimi lavori di due formazioni romane, Muta Imago e MK, che è difficile inserire nelle tradizionali categorie in cui si incuneano le arti performative: c’è danza e c’è movimento, c’è una ricerca sonora e di luci tutta particolare; c’è magari poca parola, però forte di una strutturazione drammaturgica e concettuale ben fondata; ma Displace di Muta Imago e Il giro del mondo in 80 giorni di MK sembrano più che altro orientarsi verso la creazione di un ambiente in cui rappresentazione e performatività, realtà e finzione tendono a confluire in un unicum fortemente materico, trattato attraverso variazioni di intensità e temperature, di densità e atmosfere.
Displace è un lavoro sulla guerra, anzi sul dopoguerra, raccontato da quattro donne che potrebbero essere chiunque: ovunque macerie, a partire da quel gigantesco muro che crolla all’inizio e sui cui frammenti sono costrette a muoversi le performer per tutto lo spettacolo. Il titolo (in inglese è la parola per gli esiliati, i profughi) già contestualizza il senso di un lavoro che prende origine dalla matrice teatrale di tutte le guerre e dei loro postumi, la Guerra di Troia nella versione delle Troiane di Euripide, ma si sposta molto più in là. Perché la storia non è (solo) quella: è quella della fatica, dell’abbandono, della disperazione che accompagna e segue qualsiasi conflitto – «Displace è il senso che ci governa in questo momento. È la polvere che ci avvolge tutti e non rende chiaro nulla», recitano le note di regia. E quella qualità atmosferica ed emotiva, fatta di polvere che si alza (complici, in una bella immagine, le frustate inferte al suolo dalle performer), di frammenti che fanno inciampare, di pulviscolo che rende tutto uguale e irriconoscibile, è la materia da cui si sviluppa la drammaturgia magmatica di questo spettacolo. Contrappunti di fitta penombra e tagli di luce incisivi, tratti netti mischiati a scene di sottile delicatezza, assieme a un tessuto sonoro su cui sono incastonati alcuni incisivi momenti vocali (dal canto della soprano alle urla, ai racconti in voice off) e una precisa geometria di traiettorie di movimento, sono i territori attraverso cui si muovono i gesti, i passi, gli sguardi delle performer di Displace. Niente di concettuale per quest’ultimo lavoro di Muta Imago, quanto piuttosto un trattamento di spazio e tempo (attraverso il suono, la parola, l’immagine) che mira a materializzare un ambiente che non è né il qui-e-ora ma nemmeno un luogo connotato in qualche modo preciso, quanto piuttosto uno stato emotivo a metà fra realtà e finzione – alcune immagini d’impatto approfittano apertamente e sapientemente della magia dell’artigianato teatrale, come nel fondale finale che con qualche piega si trasforma in un grande veliero –, quindi fra immedesimazione e straniamento.
Il lavoro di MK torna, ancora una volta, sul turismo, ma non c’è troppo da lasciarsi ingannare dal titolo: ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Jules Verne si lasciava sedurre dal sempre più accelerato progresso tecnologico che ha permesso al suo eroe Phileas Fogg di fare un intero giro del globo in appena 80 giorni. Oggi ci vuole circa mezza giornata per andare a New York e i viaggiatori sono ogni anno quasi un miliardo; infatti, Il giro del mondo di MK si muove intorno a Verne, ma con la complicità della lettura del filosofo Peter Slotedijk, che ne ha visto un prototipo del capitalismo globale. Così il giro di Phileas Fogg è concretizzato più che altro da cambi di luce e di pressione, di densità atmosferica; le traiettorie quasi balistiche dei danzatori e le loro partiture di movimento quasi autarchiche, sono continuamente messe in discussione da imprevisti di ogni genere (una cascata di palline da golf che ingombreranno il palcoscenico fino alla fine dello spettacolo, tanto per fare un esempio), mentre la figura del turista è esplosa in una drammaturgia complessa e aperta, un “ovunque” popolato di prototipi del viaggiatore contemporaneo, cliché esotisti, retrogusti post- e neo-coloniali − ovvero di segni altamente connotati ma resi irriconoscibili, proprio come i souvenir, attraverso un dispositivo che intreccia giustapposizione reciproca e irriducibile decontestualizzazione.
Forse non è un caso – e, se lo fosse, sarebbe quanto mai fortunato – che entrambi i due spettacoli che aprono questa nuova stagione del teatro forlivese abbiano a che fare con lo spiazzamento, con la decontestualizzazione, con un altrove solo immaginato: il “displace” di Muta Imago e l’ovunque di MK, con tutta la loro specifica inquietudine, si incontrano sui palcoscenici di Forlì.
Certo è un po’ strano immaginarsi questi lavori – magari ospitati in spazi decisamente differenti dal teatro all’italiana e spesso incastonati in rassegne ad hoc, frequentate nella gran parte dei casi da tribù di addetti o affezionati ai lavori – in un teatro tradizionale, con la sua stagione di prosa, le poltroncine rosse, il sipario, il palco rialzato e tutto il resto; ma la realtà dei fatti è differente, perché vedere questi spettacoli in uno spazio altro, se certo ne lima alcuni presupposti, permette allo stesso tempo di focalizzare con ancora maggiore precisione il nucleo, la sostanza della ricerca stessa – in parte, quella concentrazione sulla costruzione di un ambiente, tramite il trattamento delle sue istanze spazio-temporali, che supera la tradizionale dicotomia oppositiva fra realtà e rappresentazione, facendone confluire i caratteri e mescolare i limiti. E questo è l’augurio che ci permettiamo di rivolgere alla nuova stagione di contemporaneo di Forlì: un prezioso spiazzamento, che, allo stesso tempo, sappia mostrare altre modalità di approccio e di intervento agli stessi spettatori habitué e che sappia raggiungere, quando non addirittura creare, nuovi pubblici. Del resto, è proprio quello che hanno saputo fare (e che ci hanno segnato) le compagnie di questi anni, tante delle quali si trovano assieme proprio in rassegna al “Diego Fabbri”: a fianco a una cruciale insofferenza per le tradizionali categorie dello spettacolo dal vivo (che dividono tanto la scena quanto la platea per fasce di età, provenienza, gusti, linguaggi e tendenze), hanno voluto instancabilmente frequentare spazi e geografie diversi, attraversando tanto il teatro stabile che la sala comunale o il centro sociale, e muoversi fra i linguaggi (musica, graphic novel, tv, arte visiva) più per affinità e risonanza che per scelta ideologica o concettuale. Un sostanziale spiazzamento, quanto mai prezioso, che ha saputo, alla fine, anche stimolare e attirare nuovi pubblici, oltre che smuovere quelli già presenti – la stessa energia che, a quanto pare, è arrivata ad aprire la nuova stagione di contemporaneo del teatro “Diego Fabbri” di Forlì.
Roberta Ferraresi