Recensione a Storm end come – coreografia di Yasmeen Godder
Sei corpi si avventurano nel territorio dell’astrazione e cercano la loro propria evoluzione dapprima nella solitudine e poi nella relazione con altri. Si ritraggono, tremano, ansimano, giocano: in un’ora, senza sosta, i ballerini dello spettacolo Storm end come attraversano vari stadi confusi ed estatici nel tentativo di trovare i confini del proprio essere. La nuova coreografia dell’israeliana Yasmeen Godder, presentata in prima italiana nell’ambito del XVIII Festival internazionale di Civitanova Danza, parte proprio da un’atmosfera instabile, sfuggevole e non ben definita. Tecnicamente perfetti, i danzatori in scena si alternano tra soli e movimenti di corpi in sovrapposizione, spesso alla ricerca di un contatto che si fa carnale bisogno fisico o divertita necessità di trovare un’espressione nella collettività. Dalia Chaimsky, Shulamit Enosh, Tsuf Itschaky, Danny Neyman, Anat Vaadia e Sara Wilhelmsson, fondamentali non solo per l’esecuzione ma anche per la creazione coreografica per questo pezzo ideato insieme alla Godder, rappresentano la parte più animale e istintiva che è dentro l’uomo. Gli spasmi iniziali di cui sono preda a tratti alcuni di loro appartengono a un codice corporeo istintivo e nonstereotipato, inusuale a quello umano: se la prima danzatrice ad apparire sul palco ricorda un gatto che ricurva la schiena e si ritrae per un percepito pericolo o un invisibile disagio, in seguito due corpi – che si sorreggono l’uno sull’altro – sembrano comporre una figura mitologica, dei moderni centauri attorcigliati alla continua ricerca di un’interazione.
La confusione carnale è ancor più sollecitata dalla musica elettronica sperimentale dell’album 1992 del compositore tedesco Hajsch, dal sound editig curato da Eyal Shindler e dalle luci acide di Omer Sheizaf: un suono astratto e minimale e una luce bianca e fredda per poi passare a un crescente noise e a una sorta di sole acido – proiettato sul fondale – che accompagna i corpi in un viaggio allucinato, confuso e astratto. Se in alcuni momenti non c’è contatto tra i ballerini e ognuno è alla ricerca di esperire la propria fisicità, è nella composizione corale e aggrovigliata che si creano dei movimenti coreografici di forte impatto, in cui nel gruppo un corpo si lascia trascinare, muovere e scivolare. Il disagio, la paura, la debolezza del singolo sembrano superati attraverso la collettività: si trova la forza e l’estasi dell’essere insieme sì, ma questa non dura nel tempo; l’uomo rimane pur sempre solo nella propria individualità. Ecco che in chiusura, il gruppo che sostiene una ballerina si scioglie e ognuno in solitudine prosegue per la propria strada, ormai in totale abbandono.
Visto al Teatro Annibal Caro, Civitanova
Carlotta Tringali