Teatro dei Luoghi Fest

Da Borgo Pace al mondo: Salvatore Tamacere e Franco Ungaro sul Teatro dei Luoghi Fest 2014

Dal 20 all 24 luglio, il Teatro dei Luoghi Fest 2014 dei Cantieri Teatrali Koreja ha offerto al pubblico leccese, e non solo, un ventaglio di iniziative di grande interesse: spettacoli, vecchi e nuovi, della compagnia – La parola padre, Il pasto della Tarantola, Gardini di plastica, Il Matrimonio, Paladini di Francia, Sogni in scatola; performance e spettacoli di artisti italiani ed internazionali – All dressed up with nowhere to goVan, DemoniAlessandra Crocco e Alessandro Miele, Passo a Sud-Tarantarte-Nuova Danza Popolare, Il giudizio delle ladreLuigi Presicce, Loss LayersFabrice Planquette, Attenzione alle vecchie signore corrose dalla solitudineACTI Teatri Indipendenti; convegni che hanno ospitato interventi di operatori provenineti da tutto il mondo: La città e i teatri, condotto da Andrea Porcheddu, e La Convenzione di Faro.

Franco Ungaro e Salvatore Tamacere, dagli uffici del loro teatro (un ex-mattonificio ristrutturato dagli stessi Direttori), nel quartiere di Lecce Borgo Pace, ci regalano una preziosa testimonianza del loro lavoro, dell’evoluzione della progettualità del Festival, dello sguardo estetico e operativo che da sempre li contraddistigue e che continua a evolversi in relazione agli incontri con persone e culture di tutto il mondo.

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Potremmo partire parlando dei luoghi che danno il titolo al Festival. Cosa intendete voi quando parlare di luogo, di territorio? Come vi rapportate con esso e con la sua comunità?

Franco Ungaro: Questo è un progetto partito agli inizi degli anni Duemila. La prima edizione del TDL è del 2002 e, alle origini, era un progetto finanziato dall’Unione Europea con il Programma Cultura 2000 e mirava a valorizzare i beni culturali del Salento attraverso attività di spettacolo. Se vogliamo, era un’operazione abbastanza banale o, quantomeno, già sperimentata quella di fare spettacoli in contesti di particolare pregio storico-architettonico. Con la prima edizione del 2002 abbiamo portato spettacoli all’interno delle ville storiche di campagna; erano i luoghi dove la gente si recava dopo le vacanze al mare, soprattutto la gente benestante, perché cominciavano i preparativi per la vendemmia, quindi risiedevano lì insieme ai contadini, ai fattori. Erano i cosiddetti “casini”, delle case molto belle, molto curate. Abbiamo portato spettacoli all’interno di queste ville del Nord del Salento. Attraverso le successive edizioni abbiamo iniziato a lavorare perché i luoghi diventassero anche delle comunità di creazione.
L’anno scorso abbiamo fatto una bellissima esperienza di lavoro qui nel quartiere Borgo Pace di Lecce, dove operiamo stabilmente. I luoghi, l’anno scorso, erano il teatro, la masseria Sant’Angelo, la parrocchia, le case private degli abitanti del quartiere, la salumeria, le strade. Tutti sono diventati luoghi di creazione artistica. Abbiamo coinvolto tantissime associazioni presenti nel quartiere  e tantissimi cittadini e con loro abbiamo provato a ricostruire la memoria di Borgo Pace – cos’era la fabbrica dove ora c’è il teatro…

Salvatore Tamacere: Qui era tutta campagna, c’erano i cavalli, c’era la memoria dell’aratro, la memoria delle pecore, c’era tutta un’atmosfera che non c’è più perché il quartiere ora è diventato una periferia. C’è stata una sorta di ricostruzione della memoria di questo luogo dove è molto forte e presente il ricordo della fabbrica o della manifattura tabacchi a cento metri dal teatro.

FU: Sulle pareti della manifattura abbiamo allestito una mostra fotografica con i volti degli operai che lavoravano nella fabbrica in un momento di riconoscimento identitario del quartiere.

ST: L’artista Francesca Speranza ha fatto i ritratti degli operai che ancora vivono e presiedono la fabbrica abbandonata dai proprietari

FU: È stato un bel lavoro perché prima di arrivare alla foto lei ha incontrato e conosciuto le persone, si è fatta raccontare le storie. Con gli abitanti del quartiere abbiamo riflettuto anche su cosa abbia significato per il quartiere la nascita di un teatro e dei Cantieri Koreja a Borgo Pace.

ST: Quando siamo arrivati, la gente ci ha visto come un corpo estraneo e per molti anni nessuno di loro è mai entrato in questo posto. La sorpresa è stata quando li abbiamo fatti entrare e hanno rivisto questo luogo in un altro modo, perché molti di loro lo conoscevano come fabbrica, come mattonificio, con le macchine, eccetera. È stato bello ed è scattata lì la scintilla della partecipazione che ci stiamo portando da tre anni. Che stasera ci sia il coro della chiesa nello spettacolo finale del festival (Canto d’anime, ndr) è un segno forte.

Perché si crea davvero una comunità.

ST: Esattamente. Ieri sera erano già pronti a darci il teatro della chiesa in caso di pioggia. Il rapporto con il quartiere è cambiato molto in questi due tre anni. I nostri attori lavorano durante l’anno con i bambini del posto. Insomma, sta succedendo qualcosa.

FU: Quest’anno abbiamo proposto un tema importante che è quello della presenza degli immigrati nella città perché anche nel quartiere ce ne sono tanti. Cerchiamo di riunire l’esperienza fatta l’anno scorso con una nuova esperienza.

ST: Abbiamo dedicato il festival a due barboni, Veronica e Dino, che sono morti a duecento metri da qui, in una catapecchia dove è crollato il tetto.

FU: C’era una cisterna e sono sprofondati.

ST: Un fatto che ci ha portato a chiederci dove fossimo noi, mentre succedeva questa cosa. Il prete della chiesa ha usato toni molto forti contro l’incuria e la disattenzione dell’amministrazione. Essere presenti ed essere vicini per noi è diventata una delle cose che ci hanno segnato e ci segnano. Ovviamente, cercando di sviluppare il rapporto con il linguaggio.

Quindi, il rapporto con il quartiere è diretto, inclusivo, formativo. Per loro e per voi, immagino. Invece, la città vi segue, vi sentite radicati?

FU: Non abbiamo problemi di pubblico. Ci sarebbe bisogno di fare più repliche, ma avremmo bisogno di più risorse per poterci permettere di pagare le compagnie affinché stiano qui più giorni. Noi abbiamo più di quindicimila spettatori all’anno, che sono tanti per una città di meno di centomila abitanti. Il bello è anche che il pubblico cambia. Vediamo continuamente persone nuove.

ST: Cambia continuamente e questa è una grande cosa.

FU: Da noi l’abbonamento non funziona come sistema. Noi manteniamo il teatro con i biglietti che si fanno la sera, anche perché gran parte del pubblico è giovane e non è abituato a fare l’abbonamento, decide volta per volta.

ST: Il rapporto con i giovani è interessante perché da dieci, dodici anni curiamo laboratori con dei ragazzi – Pratica in cerca di teoria – e questo crea anche una sorta di contagio con i giovani che prima vengono a vedere i saggi finali e poi vengono a vedere gli spettacoli e magari chiedono di fare i volontari durate il festival. E tutto questo si evolve se c’è una cura del rapporto. Quest’anno è la prima volta che abbiamo i volontari: abbiamo scritto un avviso su Facebook e si sono presentati in tanti. È bello perché sono veri, non sono fantasmi, si danno da fare, si impegnano, capiscono che anche per loro è un’esperienza importante.
Il rapporto con la città va sempre alimentato. È cresciuto tanto il teatro a Lecce, sono nate tante compagnie giovani, quindi, c’è un movimento di teatro, la situazione non è quella che avevamo noi quindici anni fa, un deserto totale. La nostra presenza credo sia servita un po’ a tutti.

FU: Persone che hanno lavorato con Koreja e che sono andate via hanno messo in piedi altre strutture, altre compagnie.
C’è anche tanta gente che ancora non sa di Koreja.

ST: Non bisogna parlare solo di Lecce. Del pubblico che c’è in questi giorni, un 40% è costituito da persone che vengono dal Salento e non dalla città. Lecce è una città all’interno di un territorio, ma è il territorio che è interessante ed è interessato a essere protagonista, questa è la grande molla, secondo me, del Salento. Si vede, si sente nell’aria che c’è un protagonismo che non è solo della città ma di tutto il Salento. Credo che un 30-40% ancora non conosca Koreja. Arrivano persone che si chiedono come sia possibile che esista una struttura come la nostra. È una città abbastanza articolata, questa: c’è ancora una nobiltà, una borghesia. Esistono ancora, anche se in maniera differente dal passato, delle classi abbastanza definite.

Vi sentite lontani dal centro dell’Italia, del sistema dello spettacolo?

FU: Abbastanza.

ST: Io mi sento molto lontano, molto distaccato. Ogni tanto avrei voglia di avvicinarmi, ma poi avverto che non mi manca. Riusciamo ad auto-alimentarci. Penso che abbiamo tanti di quegli stimoli che non mi mancano quelli che vengono dal centro. Viviamo la periferia, in periferia.

FU: Quando hai più ascolto anche da parte di persone lontane, che vivono in altri Paesi, con cui dialoghi di più e meglio, anche la relazione con il centro o con il Nord passa in secondo piano.

ST: Forse per difesa ci siamo creati tutto un altro mondo. Ma la cura, l’attenzione sono parole chiave che ci contraddistinguono, quando le avremo perse sarà tutto finito.

Come avete pensato di articolare il festival di quest’anno? Si respira un’aria di internazionalità, attraverso i convegni, le relazioni di cui favorite la nascita. Quindi, non solo il quartiere, non solo la città, non solo il Salento, non solo l’Italia, ma anche l’Europa e il mondo?

ST: Da sempre noi cerchiamo di guardare fuori, di non guardarci solo l’ombelico. Vivendo in Salento, per la nostra collocazione geografica, è ovvio che è più semplice guardare al di là del mare che al Nord dell’Italia. È una cosa che ci ha caratterizzato da sempre. Veniamo da un piccolo paese, Aradeo, e fin dall’inizio, con il primo festival nell’84-85, su sei spettacoli quattro venivano dall’estero. Guardare fuori è stato sempre un nostro desiderio, conscio, inconscio, e, nel tempo, abbiamo strutturato questa idea, perché insieme al desiderio sono cresciute le opportunità del mercato; abbiamo lavorato strategicamente per fare i nostri spettacoli all’estero, per andare fuori. C’è il grande lavoro che fa Franco di relazioni, di conoscenze, sia europee che in tutta l’area Est, Ovest, ma non è più neanche solo quello. Storicamente è una cosa che ci portiamo dietro ma nell’edizione di quest’anno è un aspetto particolarmente importante.

FU: Se guardi in faccia la storia, il Salento è sempre stato terra di approdi. È una cultura che è sempre stata contaminata da altre culture. Forse l’origine, le radici sono lì. Poi c’è stata la caduta del muro di Berlino che ha aperto orizzonti nuovi che prima non ci azzardavamo a superare. Abbiamo fatto progetti importanti sui Balcani: anche lì Salvatore è andato a lavorare con una comunità rom della Serbia dove abbiamo creato lo spettacolo,  Opera Rom, mettendo insieme giovani serbi con giovani rom. Abbiamo portato questo spettacolo anche al Napoli Teatro Festival e in altri festival importanti e abbiamo vinto il Premio Teresa Pomodoro. Da quel momento, si sono aperte delle possibilità di dialogo e di lavoro nel Sud-Est dell’Europa.
L’indirizzo di quest’anno mostra anche il desiderio di entrare in relazione con le persone che sono scappate da altri paesi, in fuga dalla guerra o per necessità, di un lavoro, di una condizione di vita migliore rispetto a quella che trovavano nei loro paesi.
In questa edizione abbiamo lavorato con la Caritas di Lecce che ha aperto la casa dove accolgono i rifugiati e ci ha chiesto di tenere un laboratorio che mettesse insieme i volontari che lavorano lì con gli ospiti della struttura. Abbiamo anche lanciato un concorso che si chiama Extra e abbiamo raccolto testi e video di migranti che vivono a Lecce per farci raccontare da loro qual è la loro idea della città. Stasera, durante lo spettacolo finale, premieremo anche i primi tre. Stranamente, ancor prima che scoppiasse di nuovo il conflitto in Palestina, abbiamo premiato un ragazzo palestinese, un tunisino e uno del Burkina Faso.

ST: Un’altra cosa interessante è che gli ospiti del festival arrivano da Buenos Aires, da Montreal, dall’Australia, da Parigi e io non so se sarebbero venuti se questo incontro l’avesse organizzato il Piccolo di Milano. Parlando con loro ho avuto la sensazione e la conferma, un po’ a intuito, un po’ per caso, di una nostra caratteristica: rischiare, investire, vedere cosa nasce dalle situazioni.

FU: Penso che sia anche voglia di sperimentare qualcosa di diverso. Io trovo difficoltà a dire che il nostro è un festival. Non abbiamo le risorse per poter mettere in piedi un vero festival. C’è, però, forte in giro per il mondo il desiderio di andare a vedere qualcosa di diverso da quello che si può vedere a Santarcangelo, Avignone, Edimburgo.

Forse anche questa atmosfera informale vi giova. Io credo che ci sia tanto desiderio nel teatro di parlare, di mettersi in relazione.

FU: C’è il desiderio di potersi parlare fuori dai rituali e dai narcisismi del teatro, cè il bisogno non solo di andare a vedere spettacoli belli, ma anche di fare esperienze di relazione. Questa cosa è stata possibile perché abbiamo girato già in 39 Pesi del mondo con i nostri spettacoli. Vuol dire che abbiamo creato anche delle relazioni importanti con tanti Paesi del Sud America, dei Balcani, del Nord Europa.

ST: Siamo stati sei volte in Iran.

FU: Quelli dell’Iran ci hanno pregati perché volevano venire a Lecce.

ST: Siamo stati attenti a non cerare difficoltà diplomatiche. Bisogna stare attenti a queste cose, e forse il teatro è l’unica vera bandiera.

È chiaro che tutto questo ha delle ricadute anche estetiche e linguistiche, sugli spettacoli, sul vostro modo di produrre e lavorare. Ma, quali sono i vostri modelli teatrali di partenza, come vi siete formati e come il vostro discorso artistico si è modificato nel tempo anche grazie all’incontro con i luoghi e le culture?

ST: Io sono un autodidatta, nel senso che il teatro non era proprio nella mia idea di vita, ma c’è stata una serie di incontri casuali. Ho incontrato César Brie trent’anni fa, praticamente. Poi ho sposato Silvia Ricciardelli, un’attrice che è stata dieci anni all’Odin. Automaticamente, si creano strade che, nel privato, segnano molto le cose che succedono. L’estetica è qualcosa che si costruisce nel tempo, perché anche il tuo gusto, la tua cultura, l’incontro che fai, il pensiero al quale temporaneamente reagisci, diventano estetica. Penso che poi tutto dipenda dal progetto che si mette in piedi, da ciò su cui lavori. Ognuno fa quello che può, quello che sa che è in grado di fare. Chi pensava che avremmo comprato una fabbrica e l’avremmo trasformata in un teatro?! Questa nostra strada è anche molto particolare. Oggi poi gli incontri, nel mondo, ti segnano, ti danno sicuramente moltissimo.

FU: Questi due spettacoli – sia Il Matrimonio che La parola padre – arrivano dopo questo viaggio in giro per il mondo, vengono dall’incontro con altre culture, le culture dell’altra parte dell’Adriatico. Sono stati incontri importanti per noi. Aver chiamato tre attrici dall’Est e averle fatte venire a lavorare con le nostre attrici è il segno di questa scelta artistica. E così la scelta del testo di Gogol.

Quali sono i vostri mostri sacri? Drammaturghi, maestri del teatro, pedagoghi?

ST: A me interessa molto, paradossalmente, una cosa che non c’entra niente. Un testo di un sociologo americano Harry Braverman mi ha contagiato, influenzato e guidato in un’idea di lavoro più di tanti altri. Non c’entra molto con l’estetica, c’entra con un’idea di lavoro, di mondo, di come si possa intervenire sulla società. Poi, l’estetica, veramente, per me, è qualcosa che ha a che fare con il lavoro quotidiano. In questo momento, per esempio, mi interessa molto l’idea di riconoscere un mondo e capire l’estetica di quel mondo: Gogol non è solo un drammaturgo, ma ha tutto un modo di criticare la società.

FU: Io non faccio regia, ma i nostri riferimenti più importanti li abbiamo qui, nel Salento: Eugenio Barba e Carmelo Bene. Ma sono riferimenti personali, sono riferimenti di gusto.

ST: Assolutamente. Non a caso, a settembre, l’Odin Teatret viene nel nostro teatro e in Salento a festeggiare i cinquant’anni del loro lavoro (I Mari della vita – I 50 anni dell’Odin teatret, ndr). Una settimana quì e una settimana a Gallipoli.

FU: Spettacoli, workshop e poi una Masterclass internazionale a Gallipoli.

ST: Le prime due settimane di settembre avremo in teatro Susanne Linke e i danzatori di Pina Baush che faranno un lungo seminario (Uni-Tanz Lecce 2014, ndr). E anche questo fa parte della nostra estetica. Queste cose ci hanno appartenuto nel passato e credo, spero che continueranno ad appartenerci nel futuro. Ma vivendole in questo modo, non programmaticamente, né come una forma di fede.

FU: Anche con un certo disincanto nei confronti dei mostri sacri.

Intervista a cura di Nicoletta Lupia

Il Matrimonio: dell’inconsapevole colpevolezza

Il senso nobile del pop.
I Cantieri Teatrali Koreja hanno debuttato, durante l’edizione 2014 del Teatro dei Luoghi Fest, con  Il Matrimonio, spettacolo tratto dall’omonimo testo di Gogol del 1842 che, nel 1868, venne trasposto in versione operistica da Musorgskij.
Salvatore Tamacere e i suoi attori riprendono tanto il tono grottesco e nero del miglior Gogol – i cui testi, muovendo dalla commedia, rovinano nella più cupa tragedia, mostrando i limiti di un’umanità spezzata tra il vecchio e il nuovo della metà dell’Ottocento -, quanto la musicalità dell’opera incompiuta, e, in questo andirivieni inseriscono un altro elemento che rimane costante durante tutta la rappresentazione: un metateatro esasperto con il fine di produrre un effetto comico, nella maggior parte dei casi, e di caos volutamente soffocante in altri momenti chiave dello spettacolo.


Gli attori sono già nell’area di gioco quando entra il pubblico – e ci resteranno, senza mai uscire di scena -, un pianoforte sulla sinistra, un divano bianco al centro, un praticabile a scale sullo sfondo, una toletta da attrice sulla destra e, a seguire, l’elemento che, fin da subito, attira l’attenzione dello spettatore e lo guida nella sua lettura interpretativa: un confessionale, nell’accezione televisiva del termine e della cosa. Due pareti rivestite di gommapiuma isolante, una telecamera su un treppiedi a terra: è l’angolo del contatto diretto con un pubblico sordo, l’antro dell’introspezione egocentrica, il luogo della solitudine e dell’auto-presentazione, lo spazio della sintesi voyeristica. Nel confessionale, gli attori rendono manifesta la loro critica ai luoghi dello sguardo televisivo, corrotto, banale, omologante.

Il soggetto è quello tipico di un certo teatro borghese ottocentesco: gli intrecci amorosi orchestrati da Madama Fëkla (Erika Grillo) per far sposare il giovane scapolo Podkolësin (Carlo Durante) con la bella e svampita Agaf’ja (Emanuela Pisicchio). Il regista risolve la trama calandola in un altrettanto noto contenitore, un format televisivo ibrido al confine tra Il gioco delle coppie e Uomini e Donne: quattro pretendenti (interpretati da Francesco Cortese, Giovanni De Monte, Fabio Zullino e lo stesso Durante) per una giovane da maritare. Ed è un tourbillon di canzoni (il piano è magistralmente suonato in scena da Ivan Banderblog), colori, luci, coreografie, movimenti rapidi, monologhi di candidatura, litigi grottechi e, ancora, uscite ed entrate continue dalla scena alla sala, dal testo alla tv contemporanea. Non stiamo solo assistendo alla messa in scena dell’opera di Gogol, non siamo solo gli spettatori indiscreti del programma della De Filippi o chi per lei, ma siamo i complici responsabili della legittimazione di un sistema, ci dilettiamo della disperazione altrui e, inconsapevolmente, ne facciamo un brand. Non poteva mancare, in conclusione, il parere del pubblico stesso, direttamente convocato alla votazione finale, in un sistema di specchi e rimandi continui che triangola tra sala, scena, ripresa audiovisiva, allusioni al contesto dell’opera ottocentesca e alla nostra cultura populista occidentale, europea, italiana.  DSC_0354

In questa attualizzazione non accondiscendente, ma divertente, consapevole e intelligente del testo di Gogol tutto trova uno spazio di sovrapposizione: la performance degli attori si innesta su un sistema scenico congegnato per mettere in ridicolo la pericolosità del mass media servendosi dei suoi stessi linguaggi. Lo spettatore coinvolto è parte del sistema multilivellare, lo riconosce, vi si identifica, e, infine, lo rifiuta nell’amarezza.

E l’amore? Il matrimonio? La salvezza? Forse non sono più accessibili perché i sistemi di simulazione sono diventati talmente tanto complessi da impedire l’immersione, l’approfondimento, la sostanza. “Come disse Liala, ti amo disperatamente”, diceva Umberto Eco nella sua prefazione a Il nome della rosa, sottolineando come, nelle logiche postmoderne, un amore puro sia diventato impossibile e possa venire facilmente tacciato di ingenuità. I Cantieri Teatrali Koreja creano un ordito fine mostrando l’intreccio tra inettitudini ed evidenziando quanto le gabbie culturali e sociali trovino, a seconda dei tempi, diverse e mostruose declinazioni e come spesso l’inconsapevolezza muti poco di segno diventando colpevolezza.

Visto al Teatro dei Luoghi Fest, Lecce

Nicoletta Lupia

DEMONI_tre brevi addii

“I personaggi di Dostoevskij, sappiamo bene, non sono né strani né assurdi. Ci assomigliano, hanno i nostri stessi sentimenti. I demoni è un romanzo profetico non solo perché annuncia il nostro nichilismo, ma anche perché mette in scena anime dilaniate o morenti, incapaci d’amare e sofferenti di non poterlo fare, che vogliono e non possono credere, che sono le stesse che popolano oggi la nostra società e il nostro universo spirituale”.

Palazzo Tamborino Cezzi, Lecce

Palazzo Tamborino Cezzi, Lecce

Così, Albert Camus si pronuncia nel 1959 adattando la grande opera dostoevskiana.
Durante il Teatro dei Luoghi Fest organizzato da Cantieri Teatrali Koreja di Lecce, Alessandro Miele e Alessandra Crocco hanno presentato la prima tappa di uno studio sul romanzo ottocentesco, suddividendola in tre episodi, rispettivamente, per uno spettatore, i primi due, e per dieci, l’ultimo.
Quanto segue è un attraversamento dei corridoi, dalla bellezza straordinariamente decadente, del Palazzo Tamborino Cezzi dove gli attori hanno ambientato le azioni e le vite dei protagonisti del movimento tripartito.

#Frammento 1 / (lo sguardo di) Marija

Una tensione palpabile tra lo spettatore e la sua guida. Uno sguardo furtivo al giardino interno. Qualche certezza e alcune intuizioni. Si sa che lo spettacolo sarà strutturato in un rapporto di uno-a-uno – “Non dovrai fare niente, solo sederti e ascoltare”, spiega Alessandro Miele all’ingresso. Si sa che non durerà più di dieci minuti e che è parte di uno studio che proseguirà nei due giorni seguenti. Si intuisce, invece, una frontalità ravvicinata tra attore e spettatore, forse invasiva.
“Prego”, l’attore invita lo spettatore a entrare in una stanza, sedersi su un pouf e conoscere Marija. Per quanto si possa amare Dostoevskij e si possa aver ipotizzato quanto sta per accadere, il senso di estraneità è forte e confermato da un buio disorientante. La guida scompare, si intravede una luce sottile e si procede, orientati dal suono di un canto lontano. Appare Marija, un’assenza, più che una presenza. Ci riconosce, ci guarda, ci parla. È descrittiva, riflessiva. Gli occhi grandi sono velati di una dolcissima follia. Lo spettatore sostiene lo sguardo, lei non ha paura di nulla: non è a noi che parla o pensa, ma al suo Nikolaj. La distanza ravvicinata diventa la cornice impalpabile della sua vendetta tutta verbale, aggressiva ma proferita nell’impossibilità del compimento. Intanto, nella stanza buia, lo sguardo si abitua, gli occhi di lei si rivelano di un azzurro torbido e, dopo un mutamento repentino di inflessione, ci intimano di lasciarla.

Alessandra Crocco, Frammento #1 Marija

In questo frammento, come nei successivi, si entra e si esce continuamente dalle funzioni classiche della fruizione: attorialità, spett-at(t)orialità, narrazione e dramma si confondono negli occhi-mondo di Marija, nella sua voce pacata e ferma, nella sua fissità eloquente. Le funzioni si tendono, come una corda sulla quale l’attrice cammina consapevole e noi andiamo a tentoni. Così, il testo di Dostoevskij – rimontato in una drammaturgia monologante e analitica – aggredisce e inquieta, senza mai traboccare in eccesso, misurato, crea contrappunti intimi, non superficiali, convince e, sfruttando la logica della serialità, incuriosisce.

#Frammento 2 / (il passo di) Liza

Liza è spavalda. Come Marija sfida lo sguardo e intimidisce, ma ha una sicurezza leggera e mascolina, provocatoria e sensuale.
Il Palazzo che ci ospita è lo stesso del primo episodio, il percorso nei suoi corridoi è diverso, ma vede uno spettatore più avvertito, che sa quanto succederà e si muove spedito, consapevole e parte del gioco creato per lui. “Grazie per essere tornata”, esordisce Alessandro Miele, alludendo a un’implicita complicità. La sera prima, in quegli stessi spazi, c’è stata una festa, ci racconta l’attore, e Liza ha passato la notte con Nikolaj. “Tu sei Nikolaj. Non dovrai fare altro che sederti e aspettare”. L’azione dell’ascolto del primo movimento diventa ora un’azione di attesa che, per quanto ne sappiamo, potrebbe risolversi in un tempo silenzioso e solitario. La stanza è bellissima: una libreria, un pianoforte a coda, credenze a perimetrare gli angoli, due specchi, la porta di ingresso alle nostre spalle. Liza appare riflessa in uno specchio, insinuandosi nella coda dell’occhio distratto. Incede verso di noi e ci parla con il chiaro intento di non farci mai dimenticare chi siamo: ancora una volta, Nikolaj, il suo demone, colui che vorrebbe trascinarla in un posto tetro, nella passività di una vita indolente. Ma Liza è frivola e dà la percezione di volteggiarci intorno con le parole, pur rimanendo ferma, piedi nudi e sguardo vivo di ragazza. Di nuovo un addio che ha il sapore della rivalsa: l’attrice circumnaviga di 180 gradi la poltrona sulla quale siamo pietrificati ed esce, come un’ombra, come se niente fosse.

Proviamo una discreta pena per il personaggio che siamo stati chiamati a interpretare, per questo mostro passivo e indifferente.  I due attori sono abilissimi nel rendere una delle caratteristiche principali del protagonista dostoevskiano attraverso il coinvolgimento – reso passivo dall’ascolto prima e dall’attesa poi – dello spettatore. Nikolaj siamo noi, anche se siamo una donna, o  viviamo nel XXI secolo. Anche quando vorremmo reagire.

Demoni - Frammenti

Demoni – Frammenti

#Frammento 3 / (l’odore di) Nicolaij

Nikolaj è un odore che intossica, un’acquaragia corrosiva. È sporco di terra, si dimena in una danza scomposta, faticosa, pesante. Affonda i piedi nella terra bagnata e, infine, parla, volutamente mono-tono e scandendo con lunghe pause il suo racconto, a marcare l’eleganza del male.
Questa volta siamo in dieci, disposti in due file, definitivamente frontali, e assistiamo ala narrazione immobile e, sempre, come indifferente, dell’orrore compiuto su una giovane – sedotta e,  infine,  istigata al suicidio. Nikolaj ci fa partecipi di un passaggio esistenziale: la presa di coscienza di un nichilismo negativo, lo stesso che ha fatto di Marija e Liza delle vittime.
Infine, il personaggio ci congeda, impositivo, come se, fino a quel momento, ci avesse deliberatamente permesso di spiare e ora fosse stanco anche di noi, oltre che di se stesso.

Visto al Teatro dei Luoghi Fest, Lecce.

 Nicoletta Lupia