Teatro delle albe non-scuola

Rimando da “Dialoghi sulla non-scuola”

Manifesto non-scuola – immagine di Davide Reviati

Nel 1992, quando Ravenna Teatro era appena nata e il Teatro delle Albe si era da poco insediato al Teatro Rasi, una professoressa dell’ITIS ravennate, propose alla compagnia di fare un laboratorio con i ragazzi.
A vent’anni da quella prima esperienza di pratica teatral-pedagogica, chiamata in seguito non-scuola – termine coniato da Cristina Ventrucci, le Albe hanno deciso di allargare il “cerchio” che vede ogni anno, al termine del percorso delle non-scuole ravennati, le guide e la compagnia confrontarsi e ragionare su ciò che è stato, sulle difficoltà, sui nodi e sui momenti di esaltazione che hanno caratterizzato i singoli laboratori con gli adolescenti.
Il 21 e il 22 aprile scorsi, al cerchio si sono uniti amici, osservatori, critici, studiosi e organizzatori, chiamati a “dialogare” in Dialoghi sulla non-scuola – il titolo delle giornate di incontro – a partire da questa esperienza teatrale, per attraversarla. «Dal groviglio di nodi», Marco Martinelli ha lanciato una domanda radicale, una riflessione sulla necessità del teatro: «perché fare teatro oggi?».
Trascorsi alcuni giorni da Dialoghi, il confronto nato in quell’occasione è rimasto vivo in noi, presenti a Ravenna, anche se isolato rispetto alle tante voci di tutte le persone chiamate al Rasi. Per questo motivo è emerso il desiderio di dedicare uno spazio su Il Tamburo di Kattrin in cui far confluire le conversazioni scaturite. Nel tentativo di prolungare e restituire il colore di ciò che è stato un importante momento di confronto, abbiamo chiesto a tutti i partecipanti una breve riflessione sull’incontro, con ricordi, testimonianze, ma anche rilanci o domande e pensieri sorti a posteriori, o proprio là dove si era interrotto il discorso. Di seguito, i contributi che abbiamo finora ricevuto, nella speranza di continuare ad aggiornare lo scritto con nuove riflessioni.

Hanno partecipato: Lorenzo Donati (Altre Velocità), Nicola Villa (Asini), Mario Cubeddu (Settembre dei poeti), Carolina Carlone, Monica Francia (CorpoGiochi®A scuola), Tahar Lamri (scrittore), Laura Mariani (storica del teatro), Massimo Marino (critico teatrale), Rosita Volani, Thomas Emmenegger (Olinda), Rodolfo Sacchettini, Cristina Ventrucci (Santarcangelo ’12 ’13 ’14. Festival Internazionale del Teatro in Piazza), Maddalena Giovannelli, Francesca Serrazanetti (Stratagemmi), Elena Conti, Roberta Ferraresi, Carlotta Tringali (Il Tamburo di Kattrin), Alice Merenda Somma, Antonio Maiani, Camilla Lopez, Consuelo Battiston, Damiano Gaudenzi, Giulia Torelli, Lanfranco Vicari, Massimiliano Rassu, Matteo Cavezzali, Silvia Loddo (guide della non-scuola), Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Luigi Dadina, Marcella Nonni, Silvia Pacciarini, Alessandro Argnani, Roberto Magnani, Michela Marangoni, Laura Redaelli e Alessandro Renda (Teatro delle Albe)

 

Laura Mariani (storica del teatro)
Un antenato, quattro appunti, due domande

“Se io fossi uno di quei beati che voltano l’oro colla pala, vorrei spassarmi a fondare il mio teatro in un popolo nuovo, dove idee storte e sciapite di spettacoli scenici non entrarono ancora a guastare il buon senso che ogni bipede spennato porta con sé da Natura. M’educherei, p. e., una cinquantina di ragazzi arabi a cantare, poetare, recitare, dipingere, e via via. Poi un bel dì nel mio teatro marmoreo, sotto quel coperchione azzurro del cielo africano, darei a quei bedoini lo spettacolo della loro storia in dialoghi semplici” (Gustavo Modena, Il Teatro educatore, 1836).

Quando leggo questo brano a lezione Josella esclama: “Ma è il Teatro delle Albe!”
Dove nasce la forza della non scuola? Secondo me sono essenziali questi aspetti che elenco come mi vengono, senza ordine gerarchico.
Primo. Il Teatro delle Albe ha praticato una forma di autopedagogia articolata su più livelli che è durata anni: basata sul fare, sul non aver paura di sbagliare, sul continuare a studiare. Questa esperienza originaria li porta a essere ‘maestri’non convenzionali.
Secondo. Lo stretto legame della pedagogia con il lavoro artistico. Si vada a leggere l’Abbecedario della non-scuola alla voce Historia universalis: una presentazione semplice ed efficace del loro modo di lavorare sui testi, sempre, anche quando fanno gli spettacoli.
Terzo. L’interesse e l’amore per l’adolescenza. Erano appena usciti dall’adolescenza Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni quando hanno cominciato a cercare nel teatro la realizzazione dei loro sogni. Di questa energia, di questa con-fusione, di questo presente-futuro hanno bisogno anche oggi, per fare un teatro del nostro tempo.
Quarto. Il piacere. La cosa che mi ha colpito nel seguire Eresia della felicità a Santarcangelo 2011 sono stati naturalmente quegli adolescenti provenienti da tutto il mondo, quelle individualità spesso intrattabili e incomprensibili nel privato che si disciplinavano in un coro potente; ma ancor prima è stato il modo di lavorare di Marco Martinelli, la sua straordinaria professionalità e il piacere manifesto che provava nell’avvicinarli tutti e uno per volta al teatro, per un frammento di vita.

Due domande. La prima: calcolate, per favore, quanti giovani avete avvicinato al teatro in tutti questi anni? I numeri, i numeri. La seconda. Ci sono non-scolari che sono diventati attori, hanno trasformato il contagio in scelta di vita. Come è avvenuto il passaggio alla professione?

Mario Cubeddu (Settembre dei poeti)
I due giorni di dialogo della non-scuola il 21 e 22 aprile, organizzati dal Teatro delle Albe per i 20 anni di vita di quell’esperienza, sono stati per me uno stimolo importante di riflessione. Il ventaglio grandissimo degli argomenti, dal senso del fare teatro alle problematiche tecniche connesse al lavoro delle guide della non-scuola, hanno lasciato spazio anche al racconto dell’esperienza di Seneghe. Qui un’attività di non-scuola condotta da Roberto Magnani vive da quattro anni in simbiosi con un festival letterario, il Cabudanne de sos poetas/Settembre dei poeti. Ho avuto il piacere di testimoniare a Ravenna l’importanza che essa ha avuto per la comunità del mio paese, meno di 1900 abitanti di un borgo pastorale posto vicino alla costa centro-occidentale della Sardegna. Chiarisco che quando parlo di comunità uso questo termine col senso che ha avuto nella vita culturale e politica italiana grazie, per esempio, ad Adriano Olivetti. Uno dei luoghi in cui la sua attività intellettuale e politica ebbe importanti ripercussioni fu la Sardegna. Niente a che fare con comunità mitiche, inventate, difensive. La polis sono anche gli uomini riuniti davanti alla scena, il “cerchio condiviso in cui gli uomini, stranieri l’uno all’altro, si riconoscono”, per citare le parole di Marco Martinelli. “Morta la politica, l’educazione è diventata il campo in cui ancora la si può fare”. Una politica orientata a una crescita che è anche e anzitutto liberazione da una rete di condizionamenti culturali antichi e recenti.
Nello specifico seneghese è successo che un’onda positiva arrivata a un gruppo di ragazzi attraverso il teatro si è propagata per contagio ai genitori, ai fratellini, agli anziani che vivono soli nelle case vicine. Il teatro svolge il suo compito antico: scuote, illumina, commuove, fa riflettere.
Continua a leggere lo scritto di Mario Cubeddu… (vai all’articolo)

Maddalena Giovannelli (Stratagemmi)
Un cerchio di guide, critici, docenti e operatori che discute con passione, cercando di comprendere, sviscerare, analizzare il fenomeno imprendibile della non scuola. Le urla di Michela che escono dalla sala: sta cercando di tenere a bada i non-scuolini che tra poco porteranno in scena i loro Uccelli. Ermanna che racconta, con gli occhi luminosi, gli incontri con Barba e con Grotowsky davanti a un bicchiere di vino. Renda che guida un furgone per portare tutti a Lido Adriano a mangiare. I racconti dei milanesi di Olinda che vorrebbero rapire Argnani per averlo sempre all’ex Paolo Pini.
È questa, per me, la fotografia nitida dei giorni ravennati organizzati per festeggiare i 20 anni di non-scuola. Ma è anche un affresco di quello che sono le Albe, da molti anni: un mix irripetibile di ascolto, altruismo, concretezza, profonda ricerca artistica. Del resto – anche se a molto teatro italiano riesce forse difficile crederlo – Le Albe che salgono sul palco per Sterminio non sono altra cosa rispetto a quei mille e uno non-scuolini che urlano le parole di Aristofane o quelle di Büchner. Eresia della felicità di Santarcangelo resta per me una sintesi perfetta di tutto questo: in un cartellone di sperimentazioni performative, tra un pubblico iper-critico di addetti ai lavori, ecco che un’esplosione di magliette gialle ci costringe a domandarci, ancora una volta, che cos’è davvero teatro.

Francesca Serrazanetti (Stratagemmi)
Raccontare vent’anni di non-scuola sembra essere impossibile. Un incontro, nel più autentico spirito di accoglienza e confronto del Teatro delle Albe, pare il modo migliore per festeggiarli: una non-conferenza, una non-tavola rotonda, ma tante voci che si pongono domande. Interrogarsi sul passato e sul futuro della non-scuola significa interrogarsi sul senso stesso del fare teatro, almeno per come lo intendono le Albe. Un percorso che è una non-scuola quotidiana, un dare per apprendere e un non-insegnare per non-imparare ma liberare energie, alimentarle e farle crescere, contro ogni discriminazione, differenza, limitazione. Gettare un seme e poi un altro e poi un altro ancora, fino ad avere tanti epicentri che si allargano, con un dirompente effetto contagio. Per noi di “Stratagemmi” il cerchio è stato la figura che ha dato vita alla nostra esperienza redazionale: il teatro al centro e noi intorno che con diversi sguardi, punti di vista, esperienze e vissuti personali lo osserviamo e ne parliamo, come punto focale di un più ampio discorso. Forse per questo il cerchio creato dalle Albe nel ridotto del teatro Rasi è stato per me il modo più vero e autentico per fare onore a questi vent’anni e interrogarsi sul futuro della non-scuola. Un futuro in cui il cerchio sarà sempre più grande.

Massimiliano Rassu (guida non-scuola)
Provo a riportare le esperienze che ho convissuto con Marco e il Teatro delle Albe da ormai 12 anni!
Provo a partire da capo per contestualizzare in che modo e con quale percorso ci siamo incrociati quel 21 e 22 aprile.
Mio fratello Gabriele, più grande di me di 6 anni partecipava alla non-scuola dalle scuole superiori, dai primi anni Novanta. Nemmeno diecenne, vivevo le prime esperienze di spettatore affascinandomi agli “esiti” delle non-scuole alle quali partecipava, associando così quello che usualmente era inteso come “spettacolo teatrale” agli spettacoli messi in vita dai laboratori delle Albe con/dai ragazzi. Da allora ho come sentito innato il desiderio e il bisogno di giocare come facevano sulla scena, senza aver inteso a pieno tutto il messaggio che la non-scuola porta a sé; da allora ho sempre cercato la possibilità di svolgere “l’attività teatrale” nelle strutture sociali che mi si sono presentate, vuoi agli scouts, alle scuole medie …
Questa passione per il “giocare a fare” era costantemente alimentata dalla determinazione con la quale mio fratello si dedicava, riuscendo ad entrare nella prima squadra dei 12 Palotini di Marco assieme ad Alessandro Renda, Marco Magnani, Luca Fagioli, Alessandro Argnani …, appassionandomi sempre di più. Un giorno, io credo ancora per una qualche coincidenza astrale, mi sono ritrovato nella sede temporanea di Ravenna Teatro in V. Alberoni per un misterioso provino. Quel provino si rivelò – solo una volta sul posto – quello necessario al ricambio generazionale naturale dei Palotini adolescenti ed irriducibili che ormai erano cresciuti e non potevano continuare il percorso e l’esperienza de I Polacchi.
Continua a leggere lo scritto di Massimiliano Rassu…(vai all’articolo)

Consuelo Battiston (guida non-scuola)
Due parole.

Riporto una poesia di Patrizia Cavalli da PIGRE DIVINITA’ E PIGRA SORTE che per me quest’anno è stata al centro di molte riflessioni nell’ambito del progetto non-scuola a cui ho partecipato come guida.

Io so qual è la parola giusta.
Io lo so e tu non lo sai
non lo sai perchè hai paura
io lo so perchè ho il coraggio.
Non è mio questo coraggio
però è mio quando ce l’ho.

Per me è la condizione di chi si avventura di fronte ad un pubblico.
Ed è anche la presa di posizione di chi sceglie una “vita etica”, mai facile.
Che tipo di uomo voglio essere in questo mondo?
Qual’è la parola giusta?
Io non lo so.
Quel che è certo e che ci vuole coraggio.
Ma come farlo capire ai ragazzi durante la pratica delle prove, senza prediche?
Ho il compito di accogliere ma anche di chiedere il massimo impegno come guida.
Banalmente, qual’è lo strumento giusto: il bastone o la carota?
Credo entrambi, ma è complicato e sottilissimo da gestire.
Inoltre è importante premiare chi si prende più rischi e non dimenticare che il laboratorio è un’esperienza di gruppo dentro la quale ogni singolarità è importante.
Per me la gratificazione più bella è l’abbraccio collettivo finale, a conclusione del debutto.
Ripaga tutti gli sforzi e ti fa sentire parte di una comunità. Cosa rara al giorno d’oggi!

Roberto Magnani (attore del Teatro delle Albe, guida della non-scuola)
Quando abbiamo deciso di organizzare “Dialoghi sulla non-scuola” non sapevamo esattamente cosa sarebbe avvenuto. Ipotizzavamo un certo clima, avevamo voglia di sviscerare alcuni nodi-argomenti che soprattutto dopo Eresia della felicità al festival di Santarcangelo erano venuti a galla nelle nostre riflessioni interne, e sentivamo forte la necessità di aprire ulteriormente le porte (già spalancate) della non-scuola. Il dietro-le-quinte. Mostrare non solo il procedimento, il percorso e il processo creativo, ma attraverso un dialogo allargato ribadire e comprendere noi per primi il tipo di legame indissolubile e lo scambio profondo che intercorre tra la poetica e gli spettacoli del Teatro delle Albe e tutta l’attività della non-scuola (durante il secondo giorno di dialoghi questo punto è stato prima evidenziato da Sacchettini e poi reso limpido e chiaro a tutti dall’intervento di Ermanna).
Come in ogni DIALOGO che si rispetti, è stato importante la parte dell’ascolto: Ascoltare esperienze diverse come Seneghe e Milano mettersi a confronto e leggere dall’interno ciò che è stato per loro l’esperienza della non-scuola; ascoltare le nuove giovanissime guide come Max e Camilla che hanno messo in comune le loro sensazioni, il loro entusiasmo, le loro fragilità e le loro paure; ascoltare le bellissime storie di Tahar che sembrano provenire sempre da un mondo lontano nel tempo e nello spazio e invece ci parlano di noi e di quel che noi siamo qui, oggi; e infine ascoltare le mille domande e le curiosità più “tecniche” sulla scelta dei testi e delle musiche, sulla costruzione di un gruppo, sull’uso delle luci e dei costumi, sulla scelta di uno spazio piuttosto che un altro, su come si fa a decidere quale improvvisazione è meglio di un’ altra… ecc. Domande alle quali non si è data una risposta per mancanza di tempo e che in ogni caso una risposta unica e definitiva nella non-scuola non possono avere.

Matteo Cavezzali (guida non-scuola)
La cosa che più mi stupisce ogni anno della non-scuola è vedere quanta genialità repressa ci sia nei ragazzi delle superiori.
“Stai seduto e stai in silenzio”. Questo è il rigore richiesto dalla scuola. Un rigore dovuto per il metodo didattico basato sull’ascolto, un rigore doveroso in classi numerose e gestite da un solo insegnate.
“Ora alzatevi, mettete i banchi contro il muro, fate, parlate”. Questo è il rigore della non-scuola. Un rigore opposto, ma nel rispetto reciproco. “Dite quello che in classe vi fa sogghignare di nascosto, cantate quelle musiche che in classe vi passano per la testa”. La prima libertà dei ragazzi è quella di capire che possono fare quello che in aula gli è negato, anzi, non solo gli è concesso, ma diventa il loro punto di forza. L’ironia, la fisicità, la corsa e l’irruenza dell’adolescenza sono il sangue degli spettacoli. Poi viene la forma, il contenimento delle energie, per fare in modo che non vengano disperse, ma facciano parte di un corpo unico assieme a quelle dei dieci, venti, trenta compagni.
Quest’anno ho seguito due gruppi molti diversi, anche se analoghi per provenienza. Erano il gruppo del liceo scientifico A. Oriani di Ravenna e quello dell’altro liceo della città il Classico Dante Alighieri. In teoria pensavo fossero due gruppi analoghi e avevo pensato di lavorare su due testi di Shakespeare, il Macbeth e il Riccardo III. Visti i ragazzi però ho subito cambiato idea. Il gruppo del classico era composto da ragazzine timidissime e due soli ragazzi, di cui uno di prima che dimostrava la metà dei suoi anni. Con loro il lavoro è stato inizialmente impostato sul superamento del muro di timidezza e delle moltissime inibizioni e auto costrizioni che popolano la mente molto sensibile degli adolescenti. Era dunque impossibile trovare dei “personaggi” che vivessero a modo loro Shakespeare e siamo allora passati a Aristofane. Le ragazze si sono sbloccate grazie al coro, da non intendersi in senso musicale e nemmeno in senso filologicamente ripreso dalla tragedia classica, ma come reinventato da Marco Martinelli, ovvero una aggregazione di energie in un’unica potente struttura di gruppo.
Allo scientifico, invece, c’era un gruppo di scalmanati. Trenta anarchici che una volta rotti gli argini del rispetto del banco e del luogo scolastico, non ne volevano sapere di delimitare la propria estroversione. Il Macbeth si è naturalmente mutato in un Ubu (il suo alter-ego chiassoso e scomposto) e una volta che il gruppo si è formato, e ha sentito di essere divenuto veramente un gruppo (e non solo un insieme di singoli), il risultato è stato entusiasmante.


Rimando da “Dialoghi sulla non-scuola” di Mario Cubeddu

I due giorni di dialogo della non-scuola il 21 e 22 aprile, organizzati dal Teatro delle Albe per i 20 anni di vita di quell’esperienza, sono stati per me uno stimolo importante di riflessione. Il ventaglio grandissimo degli argomenti, dal senso del fare teatro alle problematiche tecniche connesse al lavoro delle guide della non-scuola, hanno lasciato spazio anche al racconto dell’esperienza di Seneghe. Qui un’attività di non-scuola condotta da Roberto Magnani vive da quattro anni in simbiosi con un festival letterario, il Cabudanne de sos poetas/Settembre dei poeti. Ho avuto il piacere di testimoniare a Ravenna l’importanza che essa ha avuto per la comunità del mio paese, meno di 1900 abitanti di un borgo pastorale posto vicino alla costa centro-occidentale della Sardegna. Chiarisco che quando parlo di comunità uso questo termine col senso che ha avuto nella vita culturale e politica italiana grazie, per esempio, ad Adriano Olivetti. Uno dei luoghi in cui la sua attività intellettuale e politica ebbe importanti ripercussioni fu la Sardegna. Niente a che fare con comunità mitiche, inventate, difensive. La polis sono anche gli uomini riuniti davanti alla scena, il “cerchio condiviso in cui gli uomini, stranieri l’uno all’altro, si riconoscono”, per citare le parole di Marco Martinelli. “Morta la politica, l’educazione è diventata il campo in cui ancora la si può fare”. Una politica orientata a una crescita che è anche e anzitutto liberazione da una rete di condizionamenti culturali antichi e recenti. Nello specifico seneghese è successo che un’onda positiva arrivata a un gruppo di ragazzi attraverso il teatro si è propagata per contagio ai genitori, ai fratellini, agli anziani che vivono soli nelle case vicine. Il teatro svolge il suo compito antico: scuote, illumina, commuove, fa riflettere. Soprattutto le tantissime persone che non hanno più occasione di trovarsi tutti insieme a vedere, ascoltare, partecipare.
Nel mondo tradizionale seneghese, in buona parte perso nel passato, ma ancora pienamente vivo negli anni Sessanta, la poesia si rappresentava in piazza di fronte alla comunità riunita. Nel giorno della festa tutti i componenti della famiglia uscivano di casa con in spalla sedie e scanni di dimensioni adeguate all’età. Andavano a formare man mano una platea ordinata davanti a un palco costruito con pali e tavole, o costituito semplicemente dal carrello di un trattore. I poeti erano due, ben noti al pubblico. Veniva loro assegnato un tema e su questo si sfidavano a mostrare più intelligenza, arguzia, profondità di pensiero, prontezza nella risposta, improvvisando ottavas serradas, ottave chiuse dalla rima baciata. Per qualche anno c’è stata in paese anche una pratica molto ingenua di teatro da filodrammatici. Grande coinvolgimento e grande divertimento, ma tutto si chiudeva con l’ultimo sipario. Faceva parte della maturazione umana, intellettuale e politica di nuovi gruppi “dirigenti” che mettevano alla prova e verificavano i loro poteri. Rappresentavano davanti ai compaesani la conquista di uno status sociale diverso e del linguaggio adeguato a quella nuova condizione. Oggi le cose sono diverse. Non è più questione di assalto al cielo, ma di ri-costituzione di un tessuto umano e civile. La canzone degli FP e degli IM, portata a Seneghe l’autunno scorso dal Teatro delle Albe, è stato lo spettacolo teatrale a cui molto seneghesi assistevano per la prima volta. Il teatro porta energia, vita, gioia. A Seneghe ne abbiamo bisogna perché la nostra è una realtà in grande difficoltà da tanti punti di vista. Ma credo che da un teatro come quello visto all’opera in Eresia della felicità a Sant’Arcangelo di Romagna, dove erano presenti anche dieci ragazzi di Seneghe, possano trarre vantaggio anche altri. Lo si è visto a Venezia.

Mario Cubeddu

Rimando da “Dialoghi sulla non-scuola” di Massimiliano Rassu

Provo a riportare le esperienze che ho convissuto con Marco e il Teatro delle Albe da ormai 12 anni!
Provo a partire da capo per contestualizzare in che modo e con quale percorso ci siamo incrociati quel 21 e 22 aprile.
Mio fratello Gabriele, più grande di me di 6 anni partecipava alla non-scuola dalle scuole superiori, dai primi anni Novanta. Nemmeno diecenne, vivevo le prime esperienze di spettatore affascinandomi agli “esiti” delle non-scuole alle quali partecipava, associando così quello che usualmente era inteso come “spettacolo teatrale” agli spettacoli messi in vita dai laboratori delle Albe con/dai ragazzi. Da allora ho come sentito innato il desiderio e il bisogno di giocare come facevano sulla scena, senza aver inteso a pieno tutto il messaggio che la non-scuola porta a sé; da allora ho sempre cercato la possibilità di svolgere “l’attività teatrale” nelle strutture sociali che mi si sono presentate, vuoi agli scouts, alle scuole medie …
Questa passione per il “giocare a fare…” era costantemente alimentata dalla determinazione con la quale mio fratello si dedicava, riuscendo ad entrare nella prima squadra dei 12 Palotini di Marco assieme ad Alessandro Renda, Marco Magnani, Luca Fagioli, Alessandro Argnani …, appassionandomi sempre di più. Un giorno, io credo ancora per una qualche coincidenza astrale, mi sono ritrovato nella sede temporanea di Ravenna Teatro in V. Alberoni per un misterioso provino. Quel provino si rivelò – solo una volta sul posto – quello necessario al ricambio generazionale naturale dei Palotini adolescenti ed irriducibili che ormai erano cresciuti e non potevano continuare il percorso e l’esperienza de I Polacchi.
La previa conoscenza dello spettacolo, il mio fisico gracile, una predisposizione all’amore per quell’affascinante mondo che mi si celava davanti e qualche vago aggancio all’interno della squadra (erano diventati tutti i miei idoli e modelli non appena partecipai come spettatore alla generale de I Polacchi con tanto di funambolo…nel ’98 furono alcuni elementi che fecero sì che io entrassi nella “seconda squadra palotina”.
Ancora non avevo mai partecipato attivamente ad un laboratorio della non-scuola – a differenza di tutti gli altri “neoreclutati” – e ciò mi faceva sentire penalizzato perchè pensavo che mi potessero mancare dinamiche, concezioni, metodi che avrebbero potuto facilitarmi sulla scena. Credo che se avessi continuato ad accanirmi senza frutti in greco e latino a scuola, con le assenze che mi si sarebbero presentate a causa delle imminenti turnée, avrei di certo perso l’anno e chissà quale altra opportunità, se non fosse stato per il fatto che cambiai indirizzo scolastico entro i primi 6 mesi della 4° ginnasio. Questo mi permise di continuare ad essere in scena negli anni successivi senza mai perdere un’anno di scuola e fare anche una bella figura coi professori! (in classe mi divertiva anche interpretare appieno il ruolo di studente interessato alla lezione!)
Marco mi chiese di accompagnarlo assieme a Roberto Magnani in Francia qualche giorno prima degli spettacoli, per assistere ad un laboratorio con adolescenti del posto (poi mi resi conto che fu il primo esperimento di non-scuola all’estero ed io ero presente!). Da allora ho sempre associato il metodo che usava Marco come un processo naturale e quasi scontato per mettere in vita uno spettacolo, per farlo mettere in vita, per riconoscere la “selvatichezza” universale che ogni ragazzo ha dentro di sè ed addomesticarla al linguaggio teatrale, per massacrare i grandi classici e ricostruirli in una dimensione più vicina ai fruitori, gli studenti stessi che partecipavano prima intimoriti, poi tranquillamente a loro agio, nel gioco.
Cambiare indirizzo scolastico, scambiare il greco antico con il francese mi facilitò in quello di cui avevo bisogno: comunicare con una lingua corrente e non una morta, un doppio senso di marcia, e avere gli elementi di una comunicazione completa: mittente, ricevente, messaggio, linguaggio, feedback.
Successivamente, per necessità di alchimie che solo Marco conosce e per mia grandissima gioia, entrai in scena con altre produzioni delle Albe e parallelamente, a scuola, per un’altra coincidenza astrale, cominciavo a frequentare dalla seconda superiore, i laboratori della non-scuola. E chi era la guida assegnata alla mia scuola per i primi due anni? Marco!con lui rivisitammo Le Troiane e Donne al Parlamento. Capii un pò meglio quello che vidi anni prima, quando ero bambino e senza coscienza e in scena c’era mio fratello.
Finite le scuole superiori ho intrapreso con la squadra tecnica del Rasi, di Ravenna Teatro, un percorso che viaggia parallelamente a quello che succede in scena: quello che succede Dietro alla scena! L’apprendistato come tecnico di palcoscenico prevedeva nell’addestramento, l’affiancamento alle tante squadre della non-scuola durante il giorno del debutto al Teatro Rasi per quello che riguardava le questioni tecniche a tutti i livelli: dalla scena, alle luci, all’audio, etc… Questo mi ha permesso di imparare a conoscere – a riconoscere – anche i diversi stili che le guide e i ragazzi avevano trascorso nei periodi della costruzione dello spettacolo, i diversi approcci con le questioni tecniche, le leggere sfumature e i decisi contrasti che ogni scuola e gruppo porta con sé, i tempi di lavoro, la pazienza necessaria, gli escamotages, le dinamiche drammaturgiche, i tempi comici, i ritmi funzionali, gli effetti scenici adatti, gli elementi ricorrenti che facevano della non-scuola la non-scuola!
Mi sembrava di avere affrontato l’esperienza non-scuola da parecchi punti di vista meno che da uno: quello della Guida.
La precarietà lavorativa, conseguentemente il tempo libero da dedicare al progetto, la curiosità di affrontare e disciplinare l’energia anarchica, senza influssi scolastici teatrali di una ventina di adolescenti e qualche altra coincidenza astrale, hanno fatto sì che, ancora una volta, ancora per caso, ancora come una stupenda sorpresa, mi trovassi quest’anno a fare per la prima volta da guida per questo progetto pedagogico universale che è oggi la non-scuola, vivendo un percorso che spero di poter percorrere ancora (se le coincidenze astrali lo vorranno), facendo tesoro dell’ascolto che ho imparato ad avere, colmando quella lacuna che da molto ormai pretendeva di essere colmata, conoscendo il processo alchemico da seguire avendo elementi allo stato puro che vengono offerti tramite i ragazzi, traducendo il linguaggio dei grandi autori teatrali nel linguaggio dei ragazzi; dal linguaggio dei ragazzi, in Esperienza Teatrale.

Ecco perchè eravamo nello stesso luogo nello stesso momento, il 21 e 22 aprile dopo quel 20 aprile di esito unico ed irripetibile del percorso non-scolastico che ho vissuto per la prima volta da guida.
Vorrei raccontare, avrei da raccontare più nello specifico il processo dell’opera coi ragazzi ma non possiedo l’uso di una scrittura corrente di periodi affrontabili, credo. Manco di sintassi e correttezza grammaticale. Questo mi affligge mi intimidisce e mi inibisce.
Ho cercato di fare del mio meglio sperando di non essere stato noioso. Vi ringrazio per l’interessamento della mia esperienza, spero di essere stato d’aiuto.

Massimiliano Rassu

 

Eresia della felicità: tracce poetiche della non-scuola a Venezia

Giovedì 12 aprile si è aperto al Teatro Rasi di Ravenna il festival non-scuola 2012 (vedi il calendario), un evento che per dodici giorni (fino a martedì 24) vede gli adolescenti ravennati, contagiati dalla pratica teatral-pedagogica del Teatro delle Albe, protagonisti delle “messe in vita” di alcune opere della tradizione teatrale. Il programma della rassegna si amplia sabato 21 e domenica 22 con Dialoghi sulla non-scuola: un momento di riflessione con artisti, studiosi, critici e organizzatori, pensato dalle Albe «non come convegno ma come una grande tavola rotonda» sul lavoro teatrale con gli adolescenti.

Aspettando questo incontro, nella città in cui da vent’anni Marco Martinelli e le “guide” portano avanti il percorso laboratoriale con i ragazzi degli Istituiti superiori, proviamo a ripercorrere alcune tappe della recente non-scuola fuori da Ravenna: Eresia della felicità a Venezia. Affresco non-scuola per Vladimir Majakovskij. Il progetto, promosso da Euterpe – Fondazione di Venezia, ha fatto approdare – dopo tanto Sud (Scampia, Mazara del Vallo, Lamezia Terme), come ci ha raccontato Martinelli in un’intervista – il Teatro delle Albe nel Nord-Est.
Il lavoro è stato presentato – in un doppio appuntamento – il 30 marzo al Cinema Teatro Aurora di Marghera e il 4 aprile al Teatro Goldoni di Venezia, ma gli adolescenti del Liceo Marco Polo e dell’Istituto Edison-Volta (ai quali si è unito in seguito un gruppo di bambini della Scuola Media Einaudi di Marghera), hanno conosciuto e sperimentato la pratica teatral-pedagogica-asinina fin dallo scorso ottobre. Nei sei mesi di laboratorio, il “fare teatrale” della compagnia ravennate è entrato nelle scuole della città lagunare e della periferia, ad Asseggiano, rinnovando l’idea di Teatro che prevale nella cultura italiana e che condiziona l’attuale concezione di formazione del nostro Paese. Con la non-scuola sono state poste le basi per una singolare – “eretica” e gioiosa, ma disciplinata – dimensione di incontro tra 60 ragazzi, in un’unione che ha recuperato il senso profondo del termine “comunità”. Nasce in questo contesto laboratoriale Eresia della felicità: tracce poetiche della non-scuola a Venezia: un racconto che precede la presentazione pubblica del lavoro, in cui vengono rintracciati alcuni elementi – se non veri e propri cardini – del non-metodo del Teatro delle Albe e del processo di creazione dello spettacolo. Si parte così da quel 24 ottobre 2011, giorno di avvio dell’esperienza (gli incontri si sono svolti in un primo momento proprio all’interno delle singole scuole, per far poi salire i ragazzi sul palco del Teatro Aurora nella fase finale) che abbiamo seguito personalmente come testimoni della genesi del lavoro.

Le prove di "Eresia della felicità a Venezia" - foto di Marco Zanin

Al primo incontro della non-scuola a Venezia non viene portato nessun testo, nessuna spiegazione noiosa sulla storia, non c’è tempo né voglia di cadere in sbrodolamenti di sapere. L’autore, che il Teatro delle Albe intende trattare nel corso del laboratorio titolato Eresia della felicità a Venezia con i ragazzi del Liceo Classico Marco Polo della città e dell’Istituto Tecnico Edison-Volta di Asseggiano (Mestre), è Vladimir Majakovskij. Marco Martinelli accenna brevemente solo all’adolescenza, per poter introdurre l’opera giovanile Mistero buffo – Chi è Majakovskij? – chiede un ragazzo presente che non sa neppure come iniziare a scrivere il nome del poeta russo… – Digitalo come vuoi su Google! Vedrai che apparirà il suggerimento! – risponde Roberto Magnani, guida della non-scuola. Per le Albe, prima di giungere al testo, è importante giocare insieme ai ragazzi, osservare e ascoltare, al fine di creare un gruppo, una comunità possibile. La pratica teatral-pedagogica che la compagnia ravennate porta avanti oramai da vent’anni, contraddice le tradizionali pratiche di formazione: non c’è insegnamento – «il teatro non si insegna, ma si fa» – ma vengono lanciati stimoli e possibilità, al fine di sollecitare la curiosità e la fantasia dei ragazzi. Martinelli sostituisce al termine “formazione” quello di “de-formazione”! Una deformazione propria dei volti degli adolescenti che restituisce la loro capacità di essere «uno, nessuno e centomila – come ricorda spesso il regista – senza sapere quale sarà la maschera che indosseranno da adulti». Al secondo incontro i volti rimangono più o meno gli stessi, qualcuno ha portato un amico, qualcun altro non è tornato, ma i loro sguardi sono così penetranti che è possibile sentire la stessa energia diffondersi nell’aula. Il riscaldamento iniziale (di voce, lingua e corpo) dà avvio al laboratorio. Poi Martinelli, assieme a Roberto e Laura (Laura Redaelli, attrice della compagnia e guida della non-scuola), presenta l’esercizio successivo: un gioco in cui due squadre si fronteggiano e si insultano. A questo punto, si vede affiorare un pò di perplessità nei ragazzi del Marco Polo. Che sia pudicizia? Buona educazione? Sta di fatto che non trovano il motivo per il quale dovrebbero dire parolacce ai propri compagni. Ma gli esercizi proposti dalle Albe sono giochi e vanno presi in quanto tali: «Nessuno ci sta giudicando. È un giocare insieme in cui va sviluppata la fantasia», ricorda Martinelli. Divertitevi allora, sia nel dirvi parole d’amore che di affronto.

le prove di "Eresia della felicità a Venezia" - foto di Marco Zanin

Settimana dopo settimana, le guide iniziano a raccontare agli studenti la trama, consegnano loro dei brandelli di Mistero buffo per vedere quale di questi li può toccare oggi, in che misura un accenno del testo teatrale del secolo scorso può divenire la loro storia: da questo momento emergono voci, racconti, sguardi. L’opera viene reinventata dai ragazzi attraverso la loro fantasia e l’improvvisazione. È questo uno dei cardini della non-scuola: Marco Martinelli, regista e drammaturgo, nel lavoro con gli adolescenti – così come nelle creazioni della compagnia – lascia che le loro parole, scaturite dalle improvvisazioni, alimentino e arricchiscano la composizione drammaturgica. Entra allora nell’opera del poeta russo tanto il dialetto veneziano dei ragazzi del Marco Polo, quanto l’arabo, il moldavo e le tante altre lingue che si incontrano ad Asseggiano.
Dagli esercizi di riscaldamento, alla prova all’italiana per la lettura dei primi testi composti sulle scene del Prologo e del Diluvio, le guide fanno lavorare costantemente i giovani disponendoli in cerchio. Si introduce in questo modo una delle peculiarità poetiche della non-scuola: «La radice della pratica teatrale – racconta Martinelli nel corso della conferenza stampa di Eresia – è l’“essere coro”, che non vuol dire massa. Noi viviamo in una società di massa in cui si diventa un numero dietro a milioni di altri. Il coro per noi è una dimensione eretica, da qui, Eresia della felicità, rispetto all’essere spappolati nella massa, oppure spappolati come individui. Il coro è l’arma potente del teatro, è una sorta di linguaggio sotterraneo che sta dietro tutta la storia del teatro dell’Occidente, ed è là dove invece, come dice un bellissimo proverbio africano, “Io sono Noi”, cioè io non perdo la mia individualità, ma mi fondo e mi confondo con gli altri. In questo “Io sono Noi” c’è la radice del dialogo che è l’altro grande strumento che il teatro della tradizione ci mette a disposizione: il coro (l’unisono) e il dialogo. Questa dimensione corale è fondamentale. Abbiamo preso come guida poetica Vladimir Majakovskij perché nel poeta russo entrambe le dimensioni sono importantissime: quella dell’Io delle sue liriche, dove c’è un Io “magnificamente malato” come dice nei suoi versi, e dall’altra parte la dimensione dialogica di Mistero Buffo». È lo stesso incontro tra la forma corale e quella dialogica che caratterizza la presentazione dei ragazzi: disposti in cerchio, un giovane alla volta, prendendo come riferimento un’ottava del Boiardo (ma usando i limiti della gabbia per oltrepassarla), grida il proprio nome, fa un gesto e tutti ripetono in coro ciò che ha fatto il compagno. L’ottava, tratta dall’Orlando innamorato, risuona ancora nei nostri corpi: Tutte le cose sotto della luna / l’alta ricchezza e i regni della terra / son sottoposti a voglia di fortuna / lei la porta apre / d’improvviso e serra / e quando più par bianca divien bruna / mai più se mostra a causa della guerra / instabile, voltante e roinosa / e più fallace qualunque altra cosa.

Nel corso della creazione di Eresia della felicità a Venezia vengono creati due accorpamenti, sia al Marco Polo, che ad Asseggiano: quello dei “puri” – i nobili – da un lato, e quello degli “impuri” – i poveri, i lavoratori – dall’altro. Tutti e quattro i gruppi, in seguito a un diluvio, sono approdati nell’unico pezzettino di terra rimasto asciutto: il Cinema Teatro Aurora di Marghera (nella presentazione pubblica al Goldoni, diverrà invece il teatro del centro storico di Venezia, il punto in cui cercare riparo). Qui, il tentativo di trovare un accordo per restare tutti nello stesso posto – asciutto! – si rivelerà fallimentare. Ma questa è solo una prima tappa del viaggio delle quattro “famiglie” perché al diluvio seguirà un terremoto che lì farà sprofondare tutti nell’Inferno, e poi… Gli sguardi stupiti degli adolescenti dichiarano curiosità verso il lavoro, ma non c’è fretta di saperne di più. Il loro fascino non verte sul finale, loro non si pongono obiettivi come noi adulti.

le prove di "Eresia della felicità a Venezia" - foto di Marco Zanin

Il 27 febbraio i ragazzi delle due scuole si sono finalmente incontrati in quel Cinema Teatro Aurora di Marghera nominato così tante volte nel corso delle prove in aula. Nei quattro mesi precedenti di laboratorio, quando il lavoro procedeva parallelamente nell’uno e nell’altro gruppo, la curiosità rispetto a questo evento è maturata sempre di più, insinuandosi in tutti coloro che hanno preso parte agli incontri settimanali nei due istituti. Ritrovarsi in questo spazio ci ha fatto sentire come se fossimo giunti veramente nell’unico pezzo di terra rimasto asciutto dopo il diluvio. Vederli lì, per la prima volta insieme, cinquanta ragazzi provenienti da due realtà così lontane l’una dall’altra, ai quali si sono uniti quattordici bambini della Scuola Media di Marghera, è stato emozionante. «I ragazzi hanno tanta bellezza, dice Martinelli, ma a un certo punto questa adrenalina va messa in relazione con la disciplina». La disciplina, che per tante settimane le guide della non-scuola hanno cercato di trasmettere ai ragazzi, senza imposizioni o ricatti ma solo ponendoli di fronte a una responsabilità – quella di un rispetto nei confronti non solo delle guide e del fare teatrale, ma soprattutto verso i propri compagni – finalmente è stata conquistata: vederli arrivare in teatro in anticipo era solo il primo accenno della serietà (sempre giocosa) che avrebbero manifestato una volta saliti sul palcoscenico. E qui, su uno spazio tanto grande da lasciare ogni libertà ai ragazzi, senza più i problemi legati alle aule scolastiche, è accaduto qualcosa. L’Aurora è stato assediato da una moltitudine di adolescenti che non si sono lasciati intimorire dallo “straniero” (intendendo con questo termine tanto i ragazzi dell’altra scuola, quanto il teatro, l’edificio teatrale) ma si sono uniti e sono diventati un unico “coro”.

Elena Conti

La non-scuola approda nel Nord-Est: Eresia della felicità… a Venezia!

Eresia della felicità a Venezia - foto di Marco Zanin

Dopo aver “messo sotto sopra” tante città del Sud Italia, la pratica teatral-pedagogica del Teatro delle Albe è giunta, dallo scorso ottobre, nel Nord-Est, grazie all’attenzione e al sostegno della Fondazione di Venezia e di Euterpe. Due i gruppi di adolescenti coinvolti: il plotone di studenti del Liceo Classico Marco Polo di Venezia, e quello dell’Istituto Tecnico Edison-Volta di Asseggiano.  Sotto la guida di Marco Martinelli, Roberto Magnani e Laura Redaelli, i ragazzi di terraferma si sono uniti a quelli del centro storico, per incontrare e reinventare il testo teatrale di Vladimir Majakovskij, Mistero Buffo. Al coro della non-scuola veneziana si è unito anche un gruppo di bambini della Scuola Media Einaudi di Marghera, per dar voce alle liriche del poeta russo. Venerdì 30 marzo, i 60 adolescenti presenteranno al Teatro Aurora di Marghera Eresia della felicità a Venezia. Affresco non-scuola per Vladimir Majakovskij, mentre il 04 aprile il lavoro approderà al Teatro Goldoni di Venezia. Abbiamo incontrato Marco Martinelli, con il quale abbiamo approfondito alcuni aspetti del percorso laboratoriale e il passaggio del progetto Eresia della felicità dal Festival di Santarcangelo (08 – 17 luglio 2011) a Venezia.

Da quando la non-scuola ha iniziato il suo peregrinare, sono state tante le realtà, italiane e non, a essere contagiate dal metodo anti-accademico delle Albe. Ora siete giunti a Venezia e nel presentare il progetto di Eresia della felicità a Venezia, hai manifestato una curiosità nei confronti dei ragazzi del Nord-Est. Dopo cinque mesi di lavoro, cosa ti ha donato questa realtà?
Mi ha dato tanto. La Romagna da cui veniamo è uno strano Nord, è una sorta di Sud del Nord. Ma qui invece si respira proprio il Nord-Est, quello che ha segnato, disegnato l’Italia negli ultimi 20-30 anni. Dopo tanto Sud, dopo tanta violenza evidente nell’aria, qui ritrovi una oppressione meno clamorosa di quella di Scampia o di Mazara del Vallo o di Lamezia Terme. Qui si declina con un altro alfabeto. Ma così come c’è violenza, c’è anche bellezza assoluta, ci sono profili, volti, voci commoventi. Beatrice, una ragazza del Marco Polo ci ha chiesto: «ma perché con i ragazzi di Asseggiano vi baciate e abbracciate, e con noi no?». Le abbiamo risposto che non è che siamo noi che “decidiamo”, sono loro che hanno questa modalità e noi gli andiamo incontro così come andiamo incontro a quella dei ragazzi del Marco Polo, che è più composta. È avvenuto lo stesso in Senegal, ai “palotini” si dà solo la mano, non c’è abbraccio. C’è una pudicizia che impedisce questo. Diverso a Scampia che è il luogo in tutta Italia, tra quelli frequentati dalla non-scuola, in cui ci si abbraccia e ci si bacia di più, in continuazione, con tutti. Forse non a caso…

Il passaggio di Eresia della felicità da Santarcangelo a Venezia, l’incontro continuativo con i ragazzi in questi mesi, ha reso possibile innanzitutto un lavoro sulla riscrittura dell’opera di Majakovskij. Cosa è scaturito dall’incontro tra la tua scrittura e le parole degli adolescenti?
Eresia a Santarcangelo è stato un unicum, forse irripetibile. Qui, quello che avevamo capito di Eresia, ha incontrato la dinamica di progetti come Arrevuoto e Capusutta. A Santarcangelo avevamo lavorato sul Majakovskij poeta, al quale siamo tanto legati e non potevamo non portarcelo dietro. A Venezia abbiamo cercato un incrocio tra una drammaturgia non-scuola, basata su Mistero buffo (l’opera giovanile dello scrittore russo, ndr), la reinvenzione di una trama attraverso la fantasia e l’improvvisazione dei ragazzi, e quel coro e quelle liriche che per noi sono un faro indicatore per il futuro. Negli occhi del poeta russo quindicenne, che va in carcere solo perché sogna un’altra realtà, c’è rabbia e lucentezza. Quella lucentezza che ti serve per lavorare con i ragazzi: nel caos della prova tento di suggerire delle battute, delle situazioni, delle frasi, però sempre in relazione con quello che loro stanno facendo. Dobbiamo essere aperti tutti, sia io che loro: loro ad accettare le mie indicazioni, io ad essere pronto a vedere dove me le portano, come le trasformano. E spesso le portano là dove io non immagino, e spesso mi sorprendono. Se c’è un cardine nella non-scuola, è proprio questa possibilità di stupirsi; e questa è un’attitudine che poi ti porti dietro nel momento in cui vai a lavorare con gli attori delle Albe. Non immaginarti che nella non-scuola si giochi con la fantasia e nella compagnia si faccia sul serio; in entrambe le situazioni si prende sul serio la fantasia.

Eresia della felicità a Venezia - foto di Marco Zanin

Credo che Eresia della felicità a Santarcangelo abbia attribuito alla pratica teatral-pedagogica una nuova possibilità. La sua unicità riguarda molteplici livelli: dallo spazio, alla moltitudine di ragazzi, fino alla “chiamata pubblica” al Festival che ha portato una nuova scansione temporale nello sviluppo del laboratorio. Pensi che questa dimensione pubblica di Eresia sia stata possibile perché i ragazzi coinvolti avevano fatto precedente esperienza nella non-scuola?
In parte si. Dei duecento, più della metà erano stati precedentemente coinvolti, anche se non li ho contati esattamente (ride, ndr). Dopo Santarcangelo, mi è successo di tentare qualcosa del genere in tutt’altro contesto. Cosimo Severo, regista della Bottega degli Apocrifi, che opera al Teatro Comunale di Manfredonia, mi ha detto: «Perché non vieni qualche giorno a lavorare con 60 adolescenti di Manfredonia che non sono mai saliti sul palco, e vediamo cosa succede?». Abbiamo lavorato per tre giorni sui materiali di Eresia e alla fine abbiamo chiamato il pubblico. È stata una serata sorprendente, il teatro era strapieno e c’era nei “testimoni” una felicità e uno stupore come di chi vedeva una cosa per la prima volta, i ragazzi padroni di uno spazio dei grandi, il Teatro Comunale. E nello stesso tempo quella serata non aveva, non poteva avere i contorni forse davvero irripetibili dell’esperienza vissuta nei dieci giorni di Santarcangelo, in uno spazio come lo Sferisterio, all’aperto, con le persone che arrivavano, se volevano si fermavano, se no andavano via. Io credo che Eresia della felicità abbia dato a tutti qualcosa di unico ma, nello stesso tempo, penso bisogna fare attenzione a non adagiarsi negli esiti felici, che rischiano di trasformarsi in trappole. La scommessa dell’arte, per me come per Virgilio (Sieni, ndr) o per Punzo, quando lavoriamo con non-attori, non-danzatori, è sempre altissima e riguarda in profondità te stesso: se il mondo, il mercato ti chiede di ripeterti vuol dire che hai colto qualcosa di cui c’è bisogno – questo lo senti e in parte lo capisci. Ma l’obiettivo raggiunto non deve trasformarsi in una coazione a ripetere, che ti costringa a fare il pappagallo di te stesso. Un mercante di teatro internazionale tra i più intelligenti in circolazione mi rimproverava amabilmente, giorni fa, perché le Albe spiazzano il mercato, non si ripetono, non hanno uno stile unitario, cosa che invece il mercato esige. Ovvero se fai l’Alcina, e te la riconoscono come un capolavoro, devi continuare a farla per tutta la vita! No, a noi non piace: magari così facendo, così ripetendo, gireresti di più all’estero, e ti guadagneresti sì il mondo, ma in cambio perderesti l’anima. E a noi proprio non piace svenderla, l’anima.

Hai spesso parlato del fatto di creare una coralità anche come forma di tutela per il ragazzo nel momento in cui si trova di fronte a uno spettatore. Questo diviene poi “testimone” dell’evento, ma rimane comunque un primo impatto pubblico…
A Santarcangelo dopo pochi secondi, appena cominciavamo a cantare in coro, ci dimenticavamo del pubblico, a me succedeva così e sono sicuro lo stesso avveniva ai ragazzi. Cominciavamo la canzone Tutte le cose sotto della luna in cerchio, questa era la forma iniziale che ci proteggeva dal dare spettacolo, poi quella forma si apriva e si trasformava in frontalità, quindi inevitabilmente spettacolo. Partire dal cerchio voleva dire protezione, il non dover dimostrare niente a nessuno, l’essere coerenti con l’aver appellato “testimoni” e non “spettatori” i presenti.

Si è parlato tanto, e se ne continua a parlare, di teatro salvato dai ragazzini. Ma in questa possibilità del teatro di uscire da una situazione di crisi, entra in gioco l’intervento di enti e istituzioni. Quale pensi possa essere la via percorribile dalle istituzioni per sostenere questo salvataggio e porre un freno all’omologazione che è in atto nel teatro per l’infanzia? E innanzitutto, trovi che si stia correndo questo rischio di omologazione e mercificazione nel lavoro con bambini e con non-professionisti?
Io vedo pochi spettacoli di teatro ragazzi, perché non ne ho il tempo, non sono in grado di dare un giudizio. Sicuramente quello che dicevamo prima sul nostro rapporto con il mercato, vale anche in relazione alle istituzioni. Si deve essere attenti a non farsi accalappiare, si deve anche saper scegliere le istituzioni giuste, perché non tutte hanno la stessa sensibilità. A Venezia ci siamo trovati davvero molto bene con la Fondazione di Venezia, che non ha solo voluto e finanziato il progetto, lo ha accompagnato con intelligenza, appuntamento dopo appuntamento: Cristina e Stefania e Nicola sono stati per noi dei veri alleati, capaci di coinvolgere insegnanti e operatori sociali, persone preziose nel tenere in piedi un progetto ambizioso come questo, con 60 adolescenti per la prima volta sul palco.

 

Intervista a cura di Elena Conti

Scarica il depliant dello spettacolo Eresia della felicità a Venezia