Teatro Fondamenta Nuove

“Quello che di più grande l’uomo ha realizzato sulla terra”

Il Teatro Fondamenta Nuove chiude la sua stagione con l’ultimo studio, quasi un’anteprima, di Quello che di più grande l’uomo ha realizzato sulla terra. È il nuovo lavoro di Silvia Costa con Giacomo Garaffoni, Lauda Dondoli, Sergio Policicchio, che – dopo la messinscena – hanno incontrato il pubblico del teatro veneziano. L’occasione è quella – insieme alla compagnia – di approfondire il processo compositivo, le scelte artistiche, le modalità di sviluppo e trattamento drammaturgiche e sceniche alla base di questo spettacolo, finalista al Premio Scenario 2013 e al debutto a inizio giugno al Festival delle Colline.

© Matteo de Mayda

© Matteo de Mayda

Il titolo sembra quasi una domanda. Così, anche tutto lo spettacolo: è un mistero, sia in senso generale che nello specifico delle singole scene e azioni. Nelle note, si legge dell’ispirazione a un racconto di Carver: «è come se ci chiedessero di descrivere a un cieco com’è fatta una cattedrale». È una frase che racconta di una tensione asintotica, vibrante proprio anche della sua impossibilità di compiersi; che forse implica uno sforzo sempre più estremo, tanto quanto l’obiettivo si allontana.
C’è una condizione di mistero, di enigma, di latenza che impregna tutto lo scorrere dello spettacolo. I quattro performer sono sempre di spalle, i volti si vedono di rado. Agiscono su un quadrato bianco, fatto di pavimento e due pareti di fronte al pubblico, che accoglie pochissimi oggetti. Parlano di cose che ci sono e non ci sono; si muovono in modo naturale ed eccentrico, con azioni esplicitamente simboliche o altrettanto nettamente decontestualizzate; si riferiscono a fatti comprensibili o meno, cui lo spettatore può accedere secondo la propria capacità immaginativa.

Quello che di più grande l’uomo ha realizzato sulla terra è incredibilmente concreto, fondato sulla materialità delle piccole cose, sulla matericità dei gesti, sulla quotidianità dei dialoghi, sulla normalità degli abiti. Poi, c’è qualche intrusione estrema (di senso, di figura, di suono). Queste, insieme alla tensione tanto insistita e vibrante alla (presunta) normalità del quotidiano, provocano un senso di indeterminatezza, di astrazione. Le tematizzazioni sono quelle consuete dell’immaginario narrativo moderno, a volte insistitamente borghesi e post-borghesi: gallerie d’arte (invisibili) e interni domestici, questioni di coppia e di amicizia, scontri e legami, malintesi e abbandoni. Si può pensare tanto alla drammaturgia nordica otto-novecentesca, alla sua dirompente irrequietezza verso i canoni sociali, quanto a tutto l’immaginario post-seriale e post-mediale che si ripropone in campo cinematografico e televisivo negli ultimi anni; a Ibsen e al teatro dell’assurdo come a Lynch.

© Matteo de Mayda

© Matteo de Mayda

Si respira un senso di inquietudine, come se ci fosse sempre qualcosa di predisposto a incrinare la delicatezza degli ambienti e la “normalità” degli equilibri; Silvia Costa, nell’incontro dopo lo spettacolo, parla dell’intenzione di lavorare su «una struttura geometrica e sfondarla dal di dentro». E, in effetti, è quello che accade in questo lavoro, sia al livello delle singole scene che in generale sul più ampio piano compositivo. La dialettica fra iperrealtà e surrealtà è una cifra di grande interesse drammaturgico, dal punto di vista tematico: questioni irriducibilmente umane, emotive, come l’amore, la morte, il tradimento, da un lato sono concretizzate nella minutezza dei dettagli, in gesti piccoli e netti, in dialoghi in un certo senso convenzionali, che accadono normalmente e usano spesso un linguaggio comune; dall’altro c’è un contrappunto di elementi stranianti, tanto a livello linguistico, quanto compositivo e visivo. A fianco di situazioni tutto sommato normali, temperature emotive, fragilità del vissuto, si stagliano elementi che debordano continuamente, a richiamare la potenza astratta della grande avanguardia (ad esempio Malevic).
Sembra una questione di proporzione. E dell’energia che si innesca nello scarto fra un livello e l’altro. L’artista, in un’intervista concessa al Tamburo di Kattrin l’anno scorso, in occasione del festival B.Motion (leggi l’articolo), parla in proposito di “realismo dell’immaginazione”.

Ma un punto di interesse di questo lavoro, oltre il piano scenico, si trova sicuramente sul livello della composizione drammaturgica. Quello che di più grande l’uomo ha realizzato sulla terra è un lavoro costruito con precisione sul susseguirsi di una quindicina di scene distinte, apparentemente slegate fra loro. Fra l’una e l’altra si tessono dei fili netti e sottili, a partire da alcuni innesti che portano da un ambiente al dialogo successivo, da un personaggio alla prossima scena.

© Matteo de Mayda

© Matteo de Mayda

Entrano i performer, la situazione prende vita, a volte si innesca un dialogo o una qualche forma di contatto; poi un elemento s’incrina e tutto si scioglie. «È come se – constata Silvia Costa nell’incontro dopo lo spettacolo – quando si comincia a raccontare, la storia si sfaldasse fra le mani». C’è indubbiamente questo senso di sgretolamento permanente, che, insistito e approfondito di scena in scena, diventa una tensione alla compiutezza continuamente tradita. La fine (e il fine) rimane un orizzonte inavvicinabile, incombente ma impossibile da mettere a fuoco con esattezza.
L’artista parla di una logica “a matrioska”. C’è una struttura lineare cadenzata ritmicamente in modo piuttosto netto con le piccole scene; ma c’è anche la questione dei semi che le legano, degli innesti che si sviluppano, dei sentieri che si interrompono; e, più in generale, la linea appunto misteriosa della scatola che nasconde un’altra scatola, che ne cela un’altra, un’altra, e poi un’altra ancora: lo spettacolo si apre con un cubo che si rompe, il centro del fuoco prospettico è occupato quasi per l’intera durata da un’appuntita architettura suprematista, costruita e smontata dai performer stessi, e, a pensarci bene, c’è il grande (mezzo) cubo bianco che contiene tutte le azioni.

Anche qui, è una questione di proporzione o di scala. L’andamento compositivo possiede una modularità e una pluri-livellarità capace di tenere viva la netta geometria che ritma lo spettacolo, di mantenere insieme in una percezione unitaria la linearità del percorso narrativo e la profondità delle singole scene. Come del resto sul piano tematico e linguistico, dove convenzione e avanguardia, emozione e estetica, normalità e inquietudine lavorano insieme su piani diversi. Nel complesso, probabilmente, alla costruzione di un dispositivo e al suo tentativo di messa in crisi dall’interno, al continuo svelamento e rivelamento (sul piano emotivo e linguistico, drammaturgico e tematico, del senso e della scena).

Roberta Ferraresi

 

Il cortocircuito di Fibre Parallele

Recensione a Mangiami l’anima e poi sputalaFibre Parallele

foto di Carlo Quartararo

Altarini e immagini religiose da venerare, programmi radiofonici di preghiere e ossessioni spirituali, un Cristo in croce e una stereotipata donna meridionale vestita di nero. Non è una messa cristiana. Non è una sacra rappresentazione. Mangiami l’anima e poi sputala del giovane gruppo pugliese Fibre Parallele è il ritratto di un vissuto di coppia, di un innamoramento che nasce e poi esplode, ma che si mescola con dogmi religiosi mandandoli in cortocircuito. Prendendo le mosse dalla passione di Cristo e ribaltandola, i fondatori della compagnia Licia Lanera e Riccardo Spagnulo sono due personaggi, non del tutto sconosciuti – fra tradizione biblica e luoghi comuni – che si incontrano: lei, sola e devota, invoca chi sulla croce è morto immolandosiper amore; lui si pulisce le macchie di sangue che hanno identificato il suo costato per più di duemila anni e scende dalla croce per rispondere alla chiamata della povera donna. È l’inizio di un amore e, proprio come dice timidamente Licia Lanera «i fiori spuntano dalle crepe dell’asfalto»; nessuno se lo aspetta: se Cristo è una sorta di zingaro dall’accento slavo, più dedito alle passioni carnali che a una divina spiritualità, la protagonista femminile personifica tutti gli stereotipi di un Meridione fortemente attaccato alla religione e dalla devozione assidua.

foto di Carlo Quartararo

I bravi attori divertono con la loro irriverenza mettendo in scena un Gesù che cerca una sigaretta, si piazza sulla poltrona di casa della giovane, sfrutta la sua cucina; ma allo stesso tempo tenta di liberarla dalla sua ristrettezza mentale, cercando di farle ascoltare le proprie pulsioni: sembra riuscirvi a tratti, in momenti pieni di ironia, convincendola che il loro è un vero amore che va consumato e vissuto a pieno. Ma neanche Cristo riesce a far cambiare idea alla donna che dopo essersi concessa massacra senza pietà con una mannaia il corpo del figlio di Dio che vive per una seconda volta la sua storia, la sua passione,  tornando così sulla croce. Tra canzoni kitsch e romantiche, trasmissioni radiofoniche religiose date da preghiere e ossessioni spirituali, momenti di ilarità ed emozioni – in cui vien fuori tutta la solitudine di una donna cresciuta tra dogmi e bigottismo – Mangiami l’anima e poi sputala riesce a stupire, divertire e insieme far riflettere su quelle imposizioni moraliche continuano a dettare legge nella vita di molti.

Visto al Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

Carlotta Tringali

No, InvisibilMente non è una metafora

Recensione a InvisibilMente – Menoventi

InvisibilMente – creato da Menoventi nel 2008 – annuncia uno spettacolo che si sviluppa intorno al tema del giudizio universale: un testo sintetico ma denso di spunti interessanti e lucidi nodi di interrogazione, con riferimenti stuzzicanti e qualche smarginamento di pungente poeticità. Solo che, arrivati alla penultima riga, si scopre che l’allestimento necessitava di un elefante, il cui acquisto impossibile ha obbligato la compagnia «a fare un’altra cosa». E in questo momento, ancora nel foyer del Teatro Fondamenta Nuove di Venezia, si è già dentro quella realtà capovolta e capovolgibile dichiarata dal Menoventi tanto negli spettacoli quanto nel proprio nome (che è «la temperatura di casa tua», «guardando al contrario il termometro del salotto»).

foto di Olimpio Mazzorana

Le maschere che accolgono il pubblico in teatro salgono sul palcoscenico e, in costante imbarazzo, a centro scena, si scusano per il ritardo; fra gaffe a ripetizione e gag decisamente minimal, si rivelano presto essere gli attori (Consuelo Battiston e Alessandro Miele) di InvisibilMente. Certo un meccanismo teatrale – dal teatro nel teatro di Pirandello al teatro-vita del Living – che può sembrare abusato, forse un po’ forzato, magari prevedibile e comunque difficilmente maneggevole. Ma è proprio attraverso questa e altre forzature dichiarate – le maschere, volti nuovi nel solito teatro, che distribuiscono noccioline agli spettatori già preannunciavano incrinature del genere – che lo spettacolo funziona, convincendo lo spettatore, anche il più scettico e purista, a concedere attenzione alla semplice comicità dei due interpreti, che si impongono, man mano, come due vere e proprie caricature di se stessi, degli attori e degli esseri umani imbarazzati in genere.
Ogni battuta, dalla parola al bisbiglio al risolino, è sopratitolata – rimandando a quel teatro profondamente di parola rinnovato e intelligente, già intuibile in Semiramis, spettacolo precedente, in cui la ricerca drammaturgica tenta l’esplorazione dei linguaggi e delle modalità espressive più attuali (là con l’ossessività del graffito, qui con le incisioni verbali eteree di un proiettore). Potrebbe sembrare una trovata. Non lo è: mancando dell’autocompiacimento e dell’autoreferenzialità che accompagnano solitamente espedienti del genere, l’esperienza proposta da questo giovane ensemble coagulatosi intorno al lavoro con il Teatro delle Albe, potrebbe essere piuttosto un “trattato” d’attore che percorre, assorbe (si avventa, mastica di gusto, digerisce) e scaglia fuori tante schegge della grande comicità del Novecento. Quel teatro che gli artisti stessi hanno più volte autodefinito “surreal-popolare” si colloca con forza in un percorso fuori e dentro la tradizione comica del secolo scorso, muovendosi fra spunti tematici – su tutti: un’attesa eternamente protratta dal retrogusto beckettiano – e inneschi strutturali, con una composizione per “numeri” che ammicca alla rivista e al cabaret, fino a un delicatissimo innesto dell’elemento tragico nell’esplosione comica. Certo un trattato decisamente divertente, sbozzato anche sulle linee rapide della comicità contemporanea, consapevole dell’evanescenza mediatica, causticamente critico rispetto all’interattività che ogni giorno viene sbandierata come avanguardia democratica e invece spesso è piegata ad un sempre maggior controllo ed indottrinamento dello spettatore-utente.
Temporeggiano, bisticciano, inventano: i due attori modellano l’attenzione dello spettatore, a volte con leggerezza, altre più a fatica. Fino a che qualcosa s’incrina – la luce si raffredda, i ritmi rallentano fino a corrodere quelle che fino a questo momento sembravano essere le linee drammaturgiche della performance – e si mostra l’altra faccia dello spettacolo: i due si accorgono di essere spiati, descritti e forse manipolati, vedendo i loro bisbigli amplificati dalle parole che si proiettano alle loro spalle. Ogni ironia è perduta, anche se si può ridere ancora: sull’orizzonte del comico si sviluppa, sempre più schiacciante, l’ombra del tragico che si era insinuata – fin dall’inizio, dal foglio di sala, ma anche dalle espressioni calcate degli interpreti e dalla ripetitività delle gag – nelle trame dello spettacolo. L’esplosione comica iniziale – e comunque sempre presente – affiora dunque su un caleidoscopio di riferimenti (esplicitati o meno) alla letteratura e alla critica sui dispositivi di controllo: considerazioni debordiane e atmosfere orwelliane, punzecchiature che squarciano le gag per lasciar intravvedere visioni di Dick o di Asimov o i margini, in continua mutazione, di abissi dai profili kafkiani – in una commistione di riferimenti, di registri e di “tic”, teatrali e non, che conferma la giovane compagnia faentina come uno dei più interessanti gruppi della ricerca contemporanea. A questo punto, anche chi, perplesso dalla meta-teatralità o dalla comicità minimale, aveva dedicato poca concentrazione a quello che sembrava un giochino da Zelig a volte un po’ appesantito, è troppo coinvolto per tirarsi fuori. In trappola – tanto quanto i due attori che continuano le loro scenette sul palco.

foto di Massimo Bertozzi

Nella seconda parte di InvisibilMente i sopratitoli sono impegnati non più nel riportare i dialoghi, ma nella descrizione delle azioni dei due protagonisti: sono didascalie di scena e, lentamente, lo diventano anche del pubblico, riportando con una certa esattezza risatine, perplessità e applausi, fino a fare dell’esperienza della ricezione un vero e proprio (e attivo) elemento drammaturgico. Verrebbe da distruggerlo, un dispositivo del genere che – come nella vita reale – ostenta libertà individuali indiscutibili e, allo stesso tempo, impone ogni azione e parola, fino al più morbido sussurro, al gesto più lieve. Ed è quello che tentano di fare i due attori (e forse anche “noi”, la prima persona adesso è d’obbligo, per via di un percorso di immedesimazione che man mano si impone durante lo spettacolo). «Ma poi apprendono che fuori ci sono altre scritte. E non è una metafora», dichiara, in tutta autonomia, una proiezione: un’affermazione di un’esattezza disarmante, di una spietatezza precisissima, che avvia lo spettacolo verso il suo naturale scioglimento. Non serve neanche dirlo: nonostante questo percorso dentro e fuori la manipolazione (mediatica, politica, sociale), nella scena finale, “su richiesta” dei sopratitoli, gli spettatori – prima timidamente, poi con maggior foga, ridacchiando – cospargono di noccioline i due attori che, al centro della scena, mimano goffamente quell’elefante annunciato dal foglio di sala.

Visto a Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

Roberta Ferraresi



Poetiche a confronto. Silvia Gribaudi e Chiara Frigo

Recensione alla prova aperta della residenza al Teatro Fondamenta Nuove di Silvia Gribaudi e Chiara Frigo

 

Teatro Fondamenta Nuove continua a stupire. Dopo aver arricchito l’arido inverno appena passato con la sua programmazione, risponde questa volta ai sempre maggiori tagli alla cultura proponendo una “co-residenza” all’interno del progetto Resi/Dance. Le protagoniste dell’operazione combinatoria sono state Silvia Gribaudi e Chiara Frigo, vincitrici delle ultime due edizioni del premio Giovane Danza D’Autore Veneto. Nel corso della residenza le coreografe hanno inizialmente lavorato singolarmente, sviluppando le proprie ricerche fatte a partire dal progetto Choreoroam 2009,  per poi giungere ad un’ultima fase in cui hanno lasciato comunicare i loro linguaggi fino alla presentazione, in una prova aperta, di un unico lavoro. L’ironia della Gribaudi si è accostata alla sacralità della Frigo con fare addizionale che tutto lascerebbe pensare tranne che la messinscena sia il risultato di un così breve incontro, di una collaborazione che ha consentito alle giovani artiste di confrontare le proprie estetiche in uno stesso spazio e in unico studio.

La ricerca di Silvia Gribaudi si concentra sulla comunicabilità, sulla relazione tra il corpo umano e i materiali in scena e tra questi e il pubblico, in una tripartizione di sguardi complici e dipendenti l’uno dall’altro. Waiting è il titolo del suo ultimo progetto. Ciò che emerge fin dall’inizio, pur considerando lo stato embrionale del lavoro e la presentazione di questo in condizioni differenti rispetto alla concezione originaria (il lavoro è pensato per più danzatori e non come solo), è il livello di attenzione richiesto. La danzatrice occupa la scena coprendosi il corpo con un pannello di polistirolo forato. Indaga il materiale, interagisce con esso, guarda il pubblico e “aspetta”. Attende che l’unione tra corpo e materia le permetta un’evoluzione: una reale e brusca rottura del materiale che a Fondamenta Nuove ha fatto sobbalzare lo spettatore. All’attesa e all’evanescenza di una meta finale fa da contrappunto la successiva sequenza in cui la Frigo, in una corsa circolare attorno ai resti di polistirolo, diviene ostacolo tra la Gribaudi e il materiale. Il progetto di Chiara Frigo, Non so stare, emerge gradualmente dal lavoro d’insieme. Come nella sua poetica, il movimento, per non apparire meccanico e artefatto, deve partire da gesti quotidiani, per poi potersi esprimere in tutta la sua bellezza e ritualità. Ed è proprio in chiusura che il corpo nudo della danzatrice accovacciato a terra, abbandona la sua materialità e attraversa lo spazio scenico come in un percorso estatico.

L’iniziale Chi pensi che io sia? posto come interrogativo dalla Frigo rimane aperto, così come altre affascinanti tematiche solo accennate. Che queste rientrino nel progetto dell’una o dell’altra artista non ha importanza perché la serata ha incuriosito così tanto che non si può che restare in attesa di vedere entrambi i lavori completi.

Visto al Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

Elena Conti

Il “cuore” degli Anagoor

Approfondimento del laboratorio Cuore tenuto da Anagoor al Teatro Fondamenta Nuove di Venezia

Pulsazione, ritmo, ma anche sede privilegiata, per tradizione, dei sentimenti e delle emozioni: il Cuore viene, così, eletto dalla compagnia Anagoor a metafora e sintesi dell’allenamento del performer. E per l’omonimo laboratorio condotto negli spazi del Teatro Fondamenta Nuove, in collaborazione con Giovani a Teatro della Fondazione di Venezia, a un piccolo gruppo di studenti viene data la possibilità di sperimentare il training che la compagnia impiega abitualmente nel suo processo di ricerca.

Foto di Alvise Nicoletti

Simone Derai – al quale è affidata la direzione del laboratorio con la collaborazione di Marco Menegoni e Moreno Callegari – svela fin da subito le sue “origini” che affondano nel Teatro Settimo e nelle figure di Mirko Artuso, Laura Curino e Gabriele Vacis, riproponendone “la schiera” come training di partenza del lavoro con i ragazzi. In fila l’uno affianco all’altro, i passi di dieci ragazzi si trasformano lentamente in quelli di un unico corpo: il semplice camminare in sincronia diviene elemento base per il sentire ed il muoversi di un gruppo e strumento privilegiato di concentrazione. Solo dopo aver trovato la compattezza ci si possono permettere delle singole variazioni; una volta che il ritmo è condiviso e fatto proprio da tutti i membri, l’iniziativa personale è libera di agire all’interno di quelle pulsazioni comuni.

Parallelo e complementare al lavoro della schiera è la ricerca di un’intensità ed un’emozionalità sentite e restituite dall’intero gruppo. Attraverso un lavoro di virtuali e molteplici specchi, i partecipanti si muovono nello spazio compatti, imitandosi a vicenda alla ricerca di un gesto ed un incedere comuni.
Il lavoro di mimesi – intesa non come imitazione pedissequa di una postura, ma come restituzione fisica di un’emozione trasmessa dal gesto a cui si deve far riferimento – viene portato avanti, oltre che a coppie o in gruppo, anche in relazione a delle immagini: ai partecipanti era stato infatti richiesto di presentarsi in teatro con “un’icona di riferimento” che per loro avesse una qualche rilevanza.

Foto di Alvise Nicoletti
Foto di Alvise Nicoletti

Come i nostri lontani antenati, nella notte dei tempi, osservando il cielo hanno unito con l’immaginazione stelle tra loro lontanissime disegnando nella volta celeste animali, figure umane, miti e storie, così gli Anagoor chiedono di trattare le immagini raccolte. I ragazzi compongono le loro personali ed emotive costellazioni, che vedono collegata alla Pietà di Michelangelo magari un’immagine di superman, e poco più in là l’Urlo di Munch, o il Marat di David insieme ad Arlecchino. Queste mappe di immagini accompagnano i ragazzi tutti i tre giorni di laboratorio e divengono fonte di ispirazione per la ricerca emotiva di una gestualità, in scena, carica di senso e sentimento. Una gestualità che fa dell’equilibrio e dell’appoggio i suoi canoni fisici privilegiati per poter passare dal lavoro individuale (in cui il performer interagisce con un muro) a quello collettivo – con il contatto fisico.

Foto di Alvise Nicoletti

Tre lavori paralleli, quindi, che trovano il loro punto di contatto in una costante ricerca di una pulsazione comune, solo dalla quale può prendere vita un atto scenico sincero ed emozionante.

Silvia Gatto

L’astrattismo entra a teatro con Pathosformel

 

foto di Paola Villani

foto di Paola Villani

Recensione a La timidezza delle ossa e Concerto per harmonium e città –Pathosformel

Giovani e intellettuali. Intellettuali sì, ma senza l’eccessivo accademismo che li renderebbe incomprensibili. Il teatro di Pathosformel, compagnia formatasi a Venezia nel 2004 dall’incontro di Daniel Blanga Gubbay e Paola Villani, arriva allo spettatore in maniera diretta e con semplice stupore nonostante si serva, per farlo, di differenti strumenti teorici non sempre di facile accesso. Arte concettuale, astrattismo, costruttivismo e decostruttivismo sono solamente alcuni fattori che hanno ispirato La timidezza delle ossa, breve spettacolo che implica una totale messa in gioco dell’immaginazione dello spettatore. Centrale diventa la sottrazione di quegli elementi che solitamente costituiscono il nucleo primario degli spettacoli teatrali: il corpo dell’attore e la parola qui sono completamente negati, mentre si indaga lo spazio vuoto attraverso un potente impatto visivo, fatto di improvvisi e rapidi riempimenti. Un telo bianco e illuminatissimo, posto al centro del palco, abbandona a poco a poco la sua prerogativa di superficie piatta per far trasparire delle membra, parti del corpo riconoscibili o non. Un braccio, una mano, una gamba mostrano per pochi istanti la loro consistenza, la loro ossatura filtrata dal materiale plastico che si frappone tra corpo e pubblico.

La superficie deformata ricorda lo spazialismo di Lucio Fontana e gli esperimenti sul movimento delle tele di Enrico Castellani. Non ci sono però disegni geometrici, ma protuberanze che trasformano la dimensionalità in tridimensionalità: timidamente si assiste al contatto tra due mani, all’abbraccio rapsodico di due toraci, a una spina dorsale che percorre tutto lo spazio, nelle diverse direzioni. Sta allo spettatore trovare gli incastri, immaginare cosa possa spingere quei corpi a cercarsi o a respingersi. La storia da ricostruire spetta a chi osserva seduto in platea, diventando così soggettiva.

foto di Alvise Nicoletti dal Fopa09

foto di Alvise Nicoletti dal Fopa09

Se La timidezza delle ossa rivela una ricerca completa e originale, suscitando emozioni inaspettate e percorsi associativi personali in chi guarda, meno riuscito sembra Concerto per harmonium e città. Daniel Blanga Gubbay esegue una musica minimale che allo stesso tempo è sacrale, grazie all’uso di uno strumento particolarmente legato a melodie liturgiche come l’harmonium. Il suono del piccolo strumento a pedali tenta di stabilire un legame con il tracciarsi delle linee proiettate sulla faccia anteriore dell’harmonium. Ad accompagnare Gubbay, Lorenzo Senni che, al sintetizzatore, riproduce alcuni rumori di città. Il video di Paola Villani, che dovrebbe evocare il tessuto urbano in movimento, e l’interazione di quest’ultimo con la musica risultano deboli ed eccessivamente astratti, forse da approfondire ricercando relazioni più accessibili al pubblico.

Visto a Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

Carlotta Tringali

Corpo a corpo con Bach

Recensione a Suites Bach – coreografia e interpretazione di Virgilio Sieni

Virgilio SieniIl pianoforte va. I piedi bitorzoluti del danzatore sembrano due radici d’albero, ma si muovono con l’agilità sferzante di un muscolo nudo. Solleticano le note, le ascoltano, le rilanciano. Le mani, come farfalle impazzite, galvanizzano lo spazio. Il cranio liscio del danzatore comincia presto a luccicare. Il corpo è un ricamo delirante vestito di nero da cui spunta, in una fluttuante epilessia gestuale, il bianco delle mani e dei piedi.

Abbattute le quinte, il pianoforte è a ridosso del muro di mattoni. Il pianista suona brani di per sé sufficienti a reggere un concerto: le Variazioni Goldberg sono musica autonoma, non si lasciano ingabbiare da strutture coreografiche chiuse. Il danzatore lo sa. Non attacca l’autosufficienza della musica, ma si concentra sulla sua disponibilità: mani e piedi si arrampicano sulle note coccolandole in abbracci mobili e irrequieti. Sembra un assolo ma è più semplicemente un duetto corpo-musica, formula non originale ma sempre gradevole, soprattutto se condotta con una gestualità preparata e rispettosa del materiale che coinvolge, e con un’esecuzione pianistica di adeguata corposità. Il duetto ha quasi il sapore disinvolto del cabaret, ma è frenetico nel gesto e minimale nell’emotività.

Le sezioni coreografiche sono concertate con respiro preciso sulle note. Il danzatore lancia agli spettatori poche parole, dette con immancabile palato toscano, che tracciano brevi silhouettes esplicative attorno alle singole composizioni gestuali. La performance progredisce in una dimensione quasi confidenziale con il pubblico, che verso la fine dello spettacolo è chiamato a collaborare: quattro volontari supportano le ultime variazioni del danzatore sulle ultime variazioni di Bach, in un piccolo contact di commiato.

Il pianista smette di suonare. Il danzatore sorride.

Suites Bach, sabato 5 dicembre: al pianoforte Riccardo Cecchetti, sul palco Virgilio Sieni.

Visto al Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

Agnese Cesari

Rosari e trecce d’aglio

Recensione a INRI di Teatrofficina Zerogrammi

Foto di Photophilla

Foto di Photophilla

All’uscita da teatro afferro l’opinione di uno spettatore: «C’era molto della Bausch nello spettacolo». Colgo questa affermazione innocua per un piccolo commento: a volte, l’insistenza nel voler dare un pedigree nobiliare a tutto ciò che si vede a teatro, pena la qualità della rappresentazione, è esasperante. Si rischia di trasformarsi in giudici di una gara per cani. Se lo spettatore non riesce ad etichettare tutto quello che vede va in tilt, come un commesso quando si accorge che non ci sono i prezzi sugli scaffali della pasta. Forse è un problema del pubblico italiano, con il suo ergersi sulla poltrona dello spettatore come un maestrino che aspetta di dare un voto allo spettacolo. Con la sua smania di costruire alberi teatral-genealogici per concedere il sigillo di legittimità a quello che sta guardando.

A parer mio, il Teatrofficina Zerogrammi se la cava anche da solo. Con questo non voglio negare l’importanza di ricerche e contaminazioni che sono alla base di un lavoro oculato, ma spostare l’attenzione sul contrassegno dello spettacolo piuttosto che su eventuali parentele artistiche. La compagnia è un giovane duo maschile, Stefano Mazzotta ed Emanuele Sciannamea, entrambi diplomati alla Paolo Grassi di Milano, il lavoro che presentano è INRI, coprodotto dal Festival Oriente Occidente di Rovereto. Premesse interessanti, messinscena soddisfacente. In un’oretta di spettacolo i due danzatori agiscono en travesti, abbigliati da comari di chiesa. La contraddizione tra il corpo maschile e le sottane nere è sempre evidente, mai mascherata. Si punta l’indice sul rito: non su quello del sacerdote, ma sulla liturgia ‘minore’ di chi ascolta e riceve la messa. Il dito è puntato più con il polpastrello che con l’unghia: è una parodia affettuosa e cadenzata, un gioco di atteggiamenti e travestimenti che ripercorre la liturgia del fedele e le figure dell’iconologia cattolica. La coppia è ben calibrata nonostante le diverse corporeità, e lo si nota quando, piuttosto che concentrarsi sull’una o sull’altra, l’occhio va ad appoggiarsi nello spazio che le separa, sorvegliandole entrambe. Le due comari si scrutano tenendosi strette le borse, si fanno qualche dispettuccio, pregano, rovesciano soldi nella cassetta delle offerte, fanno schioccare la lingua quando ricevono l’ostia. Sono due devote sgangherate del Cristo in croce sull’altare (che non si vede mai). Buono il ritmo, interessante la meccanica coreografica, l’unica pecca si riscontra nell’accompagnamento sonoro: efficaci i rumori di sottofondo, così come i belati delle pecorelle nella stalla, ma forse troppi momenti sono lasciati al silenzio.

Il soggetto è rischioso: lo stereotipo del fedele cattolico è uno dei punti nevralgici dell’italianità. Ma i due danzatori riescono ad essere pungenti senza offendere, forse proprio in virtù di quella tenerezza di cui rivestono le loro figure. Strappando un sorriso, forse, anche a chi il giorno dopo andrà ad ascoltare la messa con la borsa stretta tra le mani, versando offerte come gesto scaramantico e ingurgitando l’ostia con qualche difficoltà.

Visto a Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

Agnese Cesari

Energie in equilibrio

Recensione a Sincronie di errori non prevedibili Santasangre

foto di Alvise Nicoletti

foto di Alvise Nicoletti

La scommessa è quella di lavorare su un tipo di comunicazione umana alla quale siano stati sottratti gli strumenti più comuni. Quello messo in scena dai Santasangre per Sincronie di errori non prevedibili è un corpo senza parola e senza volto: sono le vibrazioni, le tensioni muscolari della performer (una bravissima Roberta Zanardo) a ‘parlare’, messe a nudo grazie anche all’efficace costume di Maria Carmela Milano. Una costante ricerca di un equilibro, un’armonia, un dialogo con le immagini proiettate ( elaborate da Diana Arbib, Luca Brinchi, Pasquale Tricoci) ed i suoni (composti da Dario Salvagnini).
Anche al video sono stati sottratti i suoi elementi più direttamente comunicativi: non immagini riconoscibili, ma luci, flash, ombre che costruiscono uno spazio straniante, surreale,  dalle prospettive inusuali; un mondo in cui il corpo col capo chino è libero di abitare svincolato da convenzioni. Grazie anche ad un potente lavoro audio, i Santasangre riescono a costruire una performance sempre in bilico tra il caos e l’armonia: un mondo psichedelico, elettronico, a tratti meccanico, ma che non risulta mai asettico perché la ricerca di armonia avviene tramite tentativi ed errori. È un metodo quasi scientifico, e sicuramente empirico, quello applicato dalla giovane ma già affermata compagnia; e, infatti, la vera protagonista dello spettacolo sembra essere l’energia – del corpo umano, della luce, del suono -.

foto di Alvise Nicoletti
foto di Alvise Nicoletti

Il primo principio della termodinamica afferma: l’energia non si crea, non si distrugge ma può solo passare da una forma all’altra (principio della conservazione dell’energia). Nello spettacolo è esattamente ciò che avviene: lo spettatore fa esperienza di un continuo scambio di energie e pulsioni tra il corpo, il video e l’audio. Ad un primo ‘dialogo’ tra i tre elementi – come in uno studio reciproco, nella ricerca di potenzialità e misurazione dell’energia prodotta – segue una seconda parte più frenetica ma non caotica, in cui l’equilibrio è stato raggiunto. A separare le due fasi, un brevissimo momento in cui la luce bianca del video si smorza per lasciare spazio ad una più calda, che va a illuminare il volto della performer, rivelato solo per un istante. Una piccola parentesi in cui il ‘terzo elemento’ non è più il video ma diviene il pubblico, ma l’attimo è talmente fuggente da lasciare gli spettatori insoddisfatti: troppo breve per potersi sentire davvero parte di quel mondo energetico che  hanno visto crearsi davanti a loro.

foto di Alvise Nicoletti

foto di Alvise Nicoletti

Il dibattito con il pubblico, che segue lo spettacolo, mette in luce questa sensazione, un senso di estromissione dall’azione scenica – come se l’energia  si scontrasse con la quiete della platea, innalzando una ‘quarta parete’ ancora più sentita. Ma molti altri sono stati gli spunti di riflessione nati da questo momento di confronto – importante, chiarificatore, di cui bisogna riconoscere il merito al Teatro Fondamenta Nuove, ovvero al suo direttore Enrico Bettinello e a Carlo Mangolini, consulente artistico e, per l’occasione, mediatore del dibattito.
Un linguaggio scenico criptico, fatto di sensazione più che di comprensione, spogliato di tutti gli aspetti più ‘teatrali’, fa nascere nel pubblico dubbi, perplessità, ma sopratutto una curiosità che si nutre di domande ed accende una proficua discussione e dimostra – anche in questo caso empiricamente – che il lavoro dei Santasangre non può lasciare indifferenti.

Visto al Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

Silvia Gatto

Delirante divenire di creta

Foto di Cristobal Manuel

Foto di Cristobal Manuel

Recensione di Paso Doble – Miquel Barceló e Josef Nadj

Una performance irresistibile ha rapito e conquistato l’affollatissimo Teatro Fondamenta Nuove di Venezia durante le intense giornate di vernissage della 53° Biennale d’Arte, che hanno visto la laguna al centro dell’interesse artistico contemporaneo internazionale. Il Padiglione Spagnolo, illustre ospite da anni della kermesse, ha regalato questo evento – inserito appunto in una location teatrale – ai suoi invitati e ai pochi fortunati che sono riusciti a trovare posto. I due eclettici artisti Miquel Barceló e Josef Nadj, pittore e scultore ispanico il primo e coreografo naturalizzato francese il secondo, hanno dato vita a Paso Doble, una performance/happening che aveva già debuttato al Festival Teatro di Avignone nel 2006.

Due grandi pareti di argilla diventano la base materica per la realizzazione di un’opera d’arte, nata da gesti violenti e ironici, casuali e di forte impatto. L’iniziale superficie piatta e ruvida si riempie a poco a poco dei segni deliranti dei due artisti: il pubblico assiste così al processo di creazione di un quadro-scultura, attraverso una gestualità che molto ricorda l’action painting pollockiano.

Dopo che la parete verticale sembra animarsi autonomamente, presentando delle protuberanze che crescono di volta in volta, Barceló e Nadj escono dal retro del fragile muro vestiti a giacca, con in mano degli scalpelli: l’agghiacciante quiete del loro ingresso viene subito ribaltata dalla foga con cui prendono a colpire la creta sotto i loro piedi, sollevando lingue di terra e scavando piccole sfere fangose. I loro corpi violentano quella materia molle e umida, la bucano, la squarciano, la sollevano, la tagliano. Sembrano sfogare la loro rabbia contro quel muro malleabile, prendendo vasi di argilla fresca, comprimendoli e trasformandoli in maschere animalesche per poi scaraventarli con veemenza alla parete. In un attimo la composizione d’argilla cambia volto, è dilaniata e massacrata, ma allo stesso tempo prende vita, si trasforma, acquistando un nuovo valore.

Paso Doble diventa una danza e un rituale trascendentale, dove la materia acquista vita propria, includendo anche lo stesso Nadj che si accascia al muro, schiacciato dal peso delle anfore d’argilla che il suo compagno continua a gettargli addosso. Solo alla fine entrambi vengono risucchiati da questa opera, entrando così dentro il quadro: per pochi istanti solo le loro gambe rimangono fuori dai fori realizzati nella parete. I due artisti, attraverso questa performance, raggiungono un’altra dimensione: penetrano nella loro stessa creazione, annullando se stessi e fondendosi con il loro quadro, lasciando che sia solo quest’ultimo a parlare.

Visto al Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

Carlotta Tringali