Recensione a Sonno – di Opera
Un uomo dorme sonni inquieti; ha la faccia coperta d’oro e una corona sul ventre, che si alza e si abbassa col suo respiro affannoso. Un bimbo dalla testa enorme gioca a carte con una sedia vuota, che lo fa arrabbiare quando cerca di barare. Mentre tutte le pareti cambiano pelle in diversi colori cangianti, due ombre dal volto dipinto osservano nel buio. Alcune immagini per riportare sulla pagina il mondo di Sonno (spettacolo con cui nel 2010 Vincenzo Schino ed Opera hanno vinto il Premio Lia Lapini e presentato in forma definitiva al Festival Voci di Fonte). Nominarle tutte non sarebbe sufficiente: il movimento dello spettacolo non si innesca solo dalla rigida sequenza che sostiene, l’una dopo l’altra, dimensioni differenti, di cui alcune di grande fascino; piuttosto è attivo negli interstizi, nelle attese che si innestano fra le scene, prima e dopo la prossima immagine. Insomma nella mente dello spettatore, a cui è riservata enorme libertà di esplorazione e associazione, proprio come nei sogni. Sonno, infatti, nasce da una genealogia culturale e iconografica in cui il livello della realtà e quello esoterico si stuzzicano e s’intrecciano, andando a formare generosi cortocircuiti dagli esiti a dir poco inquietanti: gli spiriti del Macbeth shakespeariano in scena incontrano (sfiorano, urtano, mordono) i mostri di Goya, generati dall’ormai proverbiale sonno della ragione. Loschi burattinai e creature animalesche, epidermidi che trascolorano e oggetti enigmatici, e poi maschere, maschere, maschere. Tante, troppe protesi per i volti e le azioni dei performer, che sembrano fare da contrappunto alla concentrazione sul ritratto umano annunciata da una sequenza di grandi dipinti a olio in apertura: la scena, infatti, inizialmente è protetta da enormi volti di Goya che l’uno dopo l’altro cadono a terra e, dopo un ultimo tulle, lasciano sbirciare nello scrigno della mente creato da Vincenzo Schino. Ma anche caduto quel velo, le protezioni filologicamente calzanti della psicanalisi la fanno da padrone: è tutto un simbolo e un’analogia, in cui ogni performer calza maschere deformi o è dipinto da segni e campiture enigmatiche; ogni curatissimo dettaglio crea un ulteriore protesi che impedisce allo spettatore di essere trascinato all’interno del mondo mostrato sul palcoscenico, ma lo invita ad attivare una propria personale creazione. Altro elemento che presiede ulteriori consolidamenti della quarta parete – inscrivendo ancor più il lavoro nella tradizione del teatro-immagine, anche oltre le eccellenze nostrane – è il gran lavorìo di cui è popolato il proscenio: in Sonno questa fragile soglia di comunicazione fra scena e platea sembra ispessirsi, dilatarsi, fino ad occupare una porzione davvero consistente che separa spettacolo e pubblico (quasi un terzo dello spazio della sala). E altro che quarta parete, capace di proteggere la scena dalla platea e viceversa: sul proscenio a un certo punto si attiva un enorme appuntito pendolo, che oscilla minacciosamente per buona parte dello spettacolo. Qui succedono molte cose, anzi si hanno le azioni decisive, ad opera di alcuni performer-creatori almeno apparentemente fuori dal gioco scenico e preposti alla guida degli accadimenti: c’è uno che costruisce la sedia d’ispirazione Banquiana con cui il “bambino” giocherà a carte e c’è l’altro, spesso protagonista di piccoli passi a due con la propria ombra, che prepara un concerto di calici. Mentre i mostri del sogno e dell’incubo scorrono inesorabili alle loro spalle, coinvolti nella creazione di immagini visceralmente incomunicanti, i performer nell’ombra tracciano un percorso interessante fra realtà e rappresentazione che corrompe l’utopia dell’autonomia dell’opera, purtroppo sviluppato solo in parte, a favore invece della materializzazione dell’immaginario onirico, certo affascinante ma in alcuni punti bloccato da una sorta di autocompiacimento che a volte rischia di intrappolarne le potenzialità.
L’impressione è che il proposito di Opera sia, come in tanti riferimenti presenti nella genealogia della compagnia, creare in scena un mondo. Probabilmente una realtà indipendente dallo spettacolo, che trova nella messinscena semplicemente uno squarcio in cui incontrare il pubblico; ma prima e dopo questo evento, sembra che Sonno possa precedere e continuare per conto proprio, così com’è venuto. Quando gli spettatori s’affacciano in platea i performer sono già lì ad aspettarli e appena tutti sono sistemati inaugurano un lavoro che assume il doppio spirito della presenza e dell’assenza: contemporaneamente personaggi e servi di scena, interpreti e creatori live del mondo che presentano, gli attori condensano nelle proprie azioni una duplicità ambigua, enigmatica, che rende estremamente concrete le situazioni che si susseguono sul palcoscenico. Proprio come fosse un altro mondo, appunto. Vincenzo Schino, regista, lo immagina come una dimensione onirica di grande visionarietà e suggestione, autenticamente inquietante tramite una composizione di immagini magnetiche e un soundscape decisamente materico. Se in alcuni momenti il lavoro deborda per un certo piacere iconologico e un intreccio di differenti linguaggi in qualche punto destinati a infastidirsi fra loro, mentre la sequenzialità drammaturgica a volte rischia di mostrare influenze un po’ datate, Sonno dimostra una certa originalità nell’andamento compositivo: pur di matrice decisamente post-moderna, la struttura sembra muoversi tornando più volte sulla stessa immagine, trasformando quasi alchemicamente l’iconografia in coreografia – fra cui spicca la capacità di schiudere visioni coi gesti di Marta Bichisao (co-fondatrice del gruppo con Schino) – e sperimentando dunque in scena un dispositivo di creazione (a priori, ma anche live) interessante, in grado di superare in certi passaggi i limiti ormai canonici della tradizione del teatro-immagine.
Visto a Voci di Fonte, Siena
Roberta Ferraresi