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Il giro del mondo in 80 minuti con Sotterraneo

Nella splendida Villa di Scornio di Pistoia, dopo una lunga residenza con tanto di progetto speciale voluto dall’Associazione Teatrale Pistoiese, ha debuttato Il giro del mondo in 80 giorni, nuovo spettacolo di Sotterraneo. La compagnia, che negli anni tanto abbiamo seguito (qui sono raccolti vari articoli), ha cambiato da poco nome, asciugandolo ed eliminando quel “Teatro” che ultimamente gli andava un po’ stretto, perché troppo specifico, troppo limitante.
Una novità che si aggiunge a un cambiamento ancor maggiore, se si pensa che per la prima volta il gruppo affronta un testo preesistente e altrui, l’omonimo romanzo di Jules Verne, prendendolo sì come pretesto e facendolo diventare altro, ma richiamando sin dal titolo un immaginario ben specifico, andando ad attingere a una lettura che ha segnato intere generazioni. Le avventure di Phileas Fogg diventano un grande “gioco da tavolo” che occupa tutto lo spazio-tempo scenico, svolgendosi tappa dopo tappa, fra imprevisti e prove, premi e penalità.

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Sembrerà un qualcosa ben lontano da noi: basti pensare che l’innesco del romanzo scritto ormai quasi 150 anni fa, è la scommessa di riuscire a fare il giro del mondo in appena (!) 2 mesi e mezzo, mentre adesso per raggiungere lo stesso scopo ce la si fa comodamente in qualche giorno. Ma molti temi si rivelano ben presenti nella versione scenica di Sotterraneo: il viaggio intorno al globo si svolge (anche) fra la logica colonialista, i pregiudizi razziali e la paura della diversità, la violenza di genere e il femminicidio; questi vengono portati a emergere, nominati, attraversati, diventano dei piccoli spilli, che appena “bucano” la fruizione vengono ritirati perché la corsa di Fogg per vincere la scommessa continua e non c’è tempo da perdere.
Un po’ come succede oggi, nel mondo della comunicazione 2.0: istantanea, rapida, immersiva, permanente, convergente; dove è più facile percorrere collegamenti orizzontali fra i contenuti, lasciarli scorrere al limite surfando da una pagina all’altra, saltando da un lolcat a una ricetta di cucina a un articolo di politica, senza (apparenti) nessi di causa-effetto. Storie sempre più aperte e storie di continuo interrotte in cui siamo completamente immersi.

Il filo qui annoda il passato e il presente, l’Ottocento delle grandi avventure e il presente di post-mediale di internet; e quindi il livello della visione registica (estremamente coerente rispetto al ritmo del romanzo) e quello della ricerca della compagnia, che da diversi anni sta lavorando fra l’altro sulle modalità di comunicazione e relazione del nostro tempo.
Ci sono insomma almeno 2 piani: la gran corsa di Phileas Fogg e compagni, da un lato, e le scintille di senso che da lì possono scaturire. Lo story-game (così lo definisce la compagnia) del Giro del mondo in 80 giorni si muove fra i due versanti, all’interno di cui Sotterraneo lavora per innesti successivi, inserendo nella storia interferenze fisiche e concettuali che danno vita a slittamenti di significato potenzialmente aperti a dischiudere altri orizzonti.

Quello che segue è una specie di “diario di bordo” del Giro del mondo di Sotterraneo, che abbiamo seguito a Pistoia in circa 80 minuti. Un diario pieno di interferenze e accenni a tematiche che si impastano col romanzo, col gioco, con l’oggi.

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DIARIO DI BORDO
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innesco: EUROPA
Tutto comincia – si sa – quando Phileas Fogg, ricco londinese, scommette con i membri del suo club di riuscire a fare il giro del mondo in 80 giorni.
interferenza #1: STORY-GAME
Qui, l’innesco parte da un grande tabellone a metà fra il gioco in scatola e il mappamondo: i continenti da attraversare sono evocati da una lavagna rettangolare a cui si appongono, durante lo spettacolo, carte di imprevisti, punizioni, casualità, ma anche filo rosso e spilli per segnalare le tappe; un dj, Mattia Tuliozi, riproduce la colonna sonora della pièce, dove si mescolano suoni di navi o treni a musiche o a quelli estrapolati da videogiochi anni ’80 come il sempreverde Super Mario Bros.
2a tappa: AFRICA (Suez)
Il continente africano è il primo a essere nominato e verso cui si sposta Fogg, accompagnato dal suo fidato cameriere Passepartout: il viaggio inizia verso l’Egitto e il canale di Suez, ma non vi è una immersione o un attraversamento reale del luogo, né tantomeno dell’Africa in generale. È una semplice tappa obbligata per muovere le pedine e dare avvio alla storia, l’Africa è una sorta di introduzione per far comprendere allo spettatore come si evolverà il gioco/racconto.
interferenza #2: REALE/FINZIONALE
Uno dei livelli di lavoro di Sotterraneo è sempre stato il rapporto tra teatro e vita vera, tra finzione e realtà. Nel Giro del mondo questo assume una evidenza ancora più nitida ed estrema dal punto di vista compositivo e recitativo, perché lo spettacolo – forse proprio perché è la prima volta che il gruppo affronta un testo-romanzo – accosta la dimensione epica del racconto orale a quella dell’azione performativa, straniamento e immedesimazione (con attori che escono e entrano continuamente dai personaggi che interpretano), disgiungendo i due poli in maniera quasi siderale, spesso ponendoli in contrappunto, e portando così lo scarto a emergere ancora più chiaramente che altrove.
3a tappa: ASIA/1 (India)
Una volta in Asia, e più precisamente in India, la corsa contro il tempo intorno al mondo di Phileas Fogg è costretta a rallentare: perché la fantomatica ferrovia che doveva fare la differenza non è ancora completata e tocca proseguire a dorso d’elefante; perché Passepartout profana involontariamente la sacralità di una pagoda entrandovi con calze e scarpe (la penalità dello story-game prende le forme della meditazione obbligata saltando un turno); e per ragioni cavalleresco-umanitarie, che vedono il protagonista salvare Auda, una giovane vedova costretta per motivi religiosi a buttarsi nella pira del marito (e qui lo spettacolo si apre sui temi del femminicidio).
interferenza #3: INTERAZIONE
Il ruolo dello spettatore ha sempre avuto una particolare centralità nei lavori di Sotterraneo e l’intero percorso del gruppo si potrebbe (anche) leggere come una lunga ricerca alla volta di una possibile drammaturgia dello spettatore, che lo vede coinvolto in prima persona, a volte in modo determinante per lo svolgimento di una scena. Nel Giro del mondo questo livello è massicciamente presente – sono diversi i momenti in cui è richiesta la partecipazione diretta, fra quiz, sondaggi, domande a tema –, ma a differenza di altri lavori (vedi l’esito per esempio di Be normal!) la funzione drammaturgica che le è riservata non ha un peso così determinante, e resta spesso una parentesi – seppure divertente e intelligente – che può incidere solo relativamente sull’andamento dello spettacolo.
4a tappa: ASIA/2 (Cina)
Da una semplice ragazza appena salvata, Auda si trasforma in una compagna di viaggio e in un ennesimo personaggio da interpretare per i due performer-attori (Sara Bonaventura e Claudio Cirri). Così da Calcutta i protagonisti partono alla volta di Hong Kong alla ricerca di un parente della vedova indiana, impresa che si rivelerà ancora una volta carica di imprevedibili peripezie (fra l’apprendimento della lingua cinese e i fumi dell’oppio).
interferenza #4: POP
Se l’Africa è solo un attraversamento veloce, in Asia il romanzo si sofferma di più e per Sotterraneo diventa il pretesto per far emergere alcuni dispositivi cari al gruppo, utilizzati con sfumature differenti anche in altri lavori precedenti: per imparare una lingua lontana e ostica come il cinese, sembra basti ripetere le poche parole dette da Google Translate, mentre per conoscere altre culture pare sia sufficiente raccogliere souvenir e scattare veloci foto-ricordo. Ma è l’entrata in scena di un enorme peluche a forma di panda, figura evocata dall’overdose da oppio di Passepartout, che ci riporta indietro nel tempo, ci fa sorridere, mentre la presenza stride con in sottofondo la canzone di Marilyn Manson I don’t like the drugs but the drogs like me: vicenda romanzesca, mondo manga, droghe e musica rock anni ’90 si mescolano su più livelli e ne viene fuori un rimpasto allucinato/allucinogeno come solo Sotterraneo sa fare. Ed ecco che entra in scena sempre e più volte l’immaginario pop: dai videogiochi anni ’80 – il funghetto di Mario Bros che dà la vita – alla canzone di Marilyn I wanna be loved by you, a – una volta che ci si avvicina all’America – l’immancabile Mickey Mouse, Barbie e Ken, il telefilm cult X Files e l’Area 51.
Il giro del mondo in 80 giorni diventa in 80 minuti un’occasione per mescolare i diversi piani che si sono stratificati nella nostra cultura, quello che vi si è sedimentato negli anni formando un immaginario collettivo e che ha fatto sì che fossimo cittadini del mondo senza muoverci da casa, ma semplicemente guardando la tv o giocando ai videogames. E così basta citare gli extraterrestri o vedere la testa di Topolino per catapultarci negli States, senza effettivamente conoscere la vera cultura americana. Dopo tutto anche Fogg attraversava i territori semplicemente apponendo bandierine, senza incontrare veramente l’Altro e la sua cultura.
5a tappa: AMERICA/1 (S. Francisco>New York)
Sbarcati in America, Fogg e Passepartout prendono il treno da San Francisco a New York, che viene attaccato da un’orda di indiani (ritornano in scena il problema razziale e – nella forma di Mickey Mouse – l’invadenza dell’immaginario globale occidentale).
interferenza #5: POST-GLOBALE, POST-MEDIALE
Il capitalismo procede per accumulo fin dalle sue origini agli albori della modernità e l’epoca che testimonia la scrittura di Verne segna forse il punto di innesco di una estrema accelerazione di questo processo: almeno dall’Ottocento possediamo sempre più merci, vediamo sempre più immagini, mangiamo cibi diversi, usiamo tecnologie nuove, possiamo andare dappertutto in sempre minor tempo (figurarsi oggi che c’è internet e i voli lowcost). È bello, è brutto, è quello che siamo. Lo spettacolo di Sotterraneo parla anche di questa forma di bulimia politica, sociale e culturale. Chi ci capisce più qualcosa? Come districarsi in mezzo a tutti questi stimoli? È possibile andarci a fondo? O è più comodo seguire rotte sempre nuove (eppure sempre pre-determinate), lasciandosi trasportare qua e là da (oggi si chiama websurfing, prima era lo zapping)? Si incrementa la conoscenza o si ampliano solo i luoghi in cui si può collocare? E questi sono davvero raggiungibili? Come possiamo comunicare gli uni con gli altri dal cuore di questi linguaggi così incommensurabilmente diversi, tramite esperienze sempre più personalizzate e personalizzabili, da un capo all’altro del tempo e lo spazio che sembrano lo stesso luogo e invece non lo sono? E in quale relazione stanno la cosa e il simulacro, l’idea astratta e l’esperienza diretta, la vertigine smagliante, rassicurante della superficie e la specifica profondità della visione personale? Con un souvenir omologato per riassumere il senso di un viaggio, una foto ricordo (della platea) che sarà sempre uguale pur nella sua diversità, un emblema pop per evocare il mood intero di un Paese, lo spettacolo prova – e molto, e instancabilmente, e a volte riuscendo e altre fallendo – a fare i conti anche con questo.
6a tappa: AMERICA/2 (dopo N.Y.)
Con la traversata degli Stati Uniti, i protagonisti del romanzo arrivano a New York, ma per farlo attraversano ulteriori avventure mescolando il passato col presente, perché dopo l’attacco degli indiani vi è quello di Greenpeace. La storia di Jules Verne si intreccia con quella politica e sociale del nostro oggi, innescando una serie infinita di cortocircuiti che vanno aumentando nella parte finale dello spettacolo.
interferenza #6: POLITICA
Il romanzo di Verne dà la possibilità di rivedere con la giusta distanza quanto in questo testo ci sia quello che oggi definiamo razzismo, violenza di genere e colonialismo. È la stessa drammaturgia dello spettacolo a sottolinearne la presenza quando nel testo compare la parola “negro” o quando racconta come una vedova, Auda appunto, si debba gettare nel fuoco insieme alla pira funeraria del marito per trovare la morte, o come siano stati combattuti gli indiani d’America e scacciati dal proprio territorio natio. Sono tutte messe a fuoco, come fossero pause viste sotto una lente di ingrandimento o una zoomata, che fanno rileggere il grande classico sotto un altro punto di vista: svelando come per noi occidentali questi esempi appena fatti siano stati sempre visti come la “normalità” in quanto abitanti della “giusta” parte del globo. Ma sono solo dei sassi lanciati, dei momenti pieni di amara ironia – come quando appare Daniele Villa travestito da membro del Ku Klux Klan per segnalare gli atteggiamenti razzisti e punire i giocatori – che affondano senza troppo turbare la superficie – anche letta come benessere quotidiano in cui tutti corriamo perdendoci la vera vita stessa –, perché la corsa di Fogg (e dell’Occidente) deve continuare nonostante tutto. I temi politici sono sì presenti ma non vengono veramente approfonditi: forse non è altro che lo specchio della nostra società in cui ci basta commentare con uno smile triste sui social network un video che mostra un atto di violenza per farci sentire di aver così mostrato da che parte stiamo, chi sosteniamo/appoggiamo, mentre in realtà dimostriamo solo come in fondo siamo subito pronti a girare la testa dall’altra parte e concentrarci su noi stessi, sulle nostre scommesse, sulle nostre vite.
…Visto che tutti conoscono un classico della letteratura come Il giro del mondo in 80 giorni vi lasciamo a wikipedia per sapere come va a finire la storia e alla visione dello spettacolo di Sotterraneo per capire come viene risolta dalla compagnia!

Roberta Ferraresi e Carlotta Tringali

DIECISOTTOZERO / Festa per i 10 anni di Teatro Sotterraneo

Il Tamburo di Kattrin ha seguito negli anni il percorso artistico di Teatro Sotterraneo scrivendo recensioni, approfondimenti e intervistando il collettivo che incontrava durante i festival e nei diversi teatri di Italia. In occasione di questo importante traguardo ripercorriamo qui alcuni nostri scritti su Teatro Sotterraneo… auguri!

>>> Be Normal! O forse no? di Roberta Ferraresi (2014)
>>> Daimon Project: intervista a Teatro Sotterraneo a cura di Elena Conti e Carlotta Tringali (2013)
>>> Daimon Project 2013_ BE NORMAL! di redazione Dreamcatcher (2013)
>>> Intervista a Daniele Villa / Teatro Sotterraneo a cura di Camilla Toso (2010)
>>> Videointervista a Teatro Sotterraneo di Redazione (2010)
>>> La corsa di Teatro Sotterraneo di Carlotta Tringali (2010)
>>> Darwin e la visionarietà di Teatro Sotterraneo di Elena Conti (2010)
>>> Collegamenti “sotterranei” tra calcio e teatro di Carlotta Tringali (2010)

Segnaliamo inoltre 

DIECISOTTOZERO / Festa per i 10 anni di Teatro Sotterraneo

Una due giorni di appuntamenti per festeggiare i primi 10 anni di lavoro di Teatro Sotterraneo. Una festa che parte dall’immaginario della compagnia per parlare di cultura e fine del mondo, rappresentazione del proprio tempo e punto di vista del superstite. Ne parliamo in un “Corso di sopravvivenza” attraverso un incontro con tre pensatori. Rappresentiamo la Catastrofe con due produzioni della compagnia distanti nel tempo. E infine balliamo sulle macerie con un dj-set conclusivo.

teatro_sotterraneo27 marzo 2015
h 18 “Corso di sopravvivenza” con Enzo Ferrara, Goffredo Fofi e Stefano Laffi
h 21 Post-it (2007): primo spettacolo con cui Teatro Sotterraneo si avvicina al tema della Fine

28 marzo 2015
h 21 BE NORMAL! _ Daimon Project (2013): ultima produzione del gruppo, esito delle recenti ricerche sul tema della vocazione personale fra realizzazione e fallimento
h 23 Dj-set Marco Santambrogio / Leonardo Mazzi

Teatro Sotterraneo è un collettivo di ricerca teatrale che circuita nei più importanti teatri e festival nazionali e internazionali. Negli anni riceve diversi riconoscimenti tra cui il Premio Lo Straniero, Premio Ubu Speciale, Premio Hystrio-Castel dei Mondi. Fa parte del progetto Fies Factory di Centrale Fies ed è compagnia residente presso l’Associazione Teatrale Pistoiese.

Si consiglia la prenotazione.
PROMOZIONE DUEGIORNI: chi verrà ad entrambi gli spettacoli, avrà il biglietto scontato del 50% sullo spettacolo della seconda sera (basterà presentare in biglietteria il biglietto di Post-it il secondo giorno per avere lo sconto su BE NORMAL!)

info:
Teatro Studio, via G. Donizetti, 58 – Scandicci (FI)
tel > 0557356443
email > biglietteria@teatrostudiokrypton.it
web > www.compagniakrypton.it/diecisottozero.html
www.teatrosotterraneo.it
evento FB >www.facebook.com/events/1422829944676591/

 

 

Be Normal! O forse no?

Recensione a Be Normal! – di Teatro Sotterraneo

foto B-Fies (Alessandro Sala)

foto B-Fies (Alessandro Sala)

“Nella società c’è posto solo per uno dei due: voi o il vostro demone. A voi la scelta”. E la scelta pare che Teatro Sotterraneo l’abbia fatta con una certa chiarezza, in questo Be Normal!, spettacolo – parte del più ampio Daimon Project – tutto orientato alla devastazione del proprio daimon, cioè le proprie ambizioni, sogni, destini.
Però, come in quasi tutti i lavori di questo gruppo, le cose non sono così semplici come sembrano. Perché, da un lato, tutti i micro-episodi di cui è composto Be Normal! si fondano sulla messa in discussione, in ridicolo e alla porta dei daimon (voglio fare l’artista, sogno di fare l’astronauta…), che non possono sopravvivere in tempi di crisi come questi, in cui appunto si fa già fatica a sopravvivere in senso stretto; dall’altro, è proprio attraverso l’arte che Teatro Sotterraneo sceglie di raccontarlo. Come se il punto di equilibrio fra l’influenza del proprio daimon e le condizioni reali, fra le proprie ambizioni e la sopravvivenza fosse invece un punto di disequilibrio che vibra della tensione che si innesca fra i due poli.

È qualcosa di fortemente identitario, radicato, determinante. L’esito è quello di un autoritratto generazionale spietatissimo. Dove i giovani sono costretti ai lavori più umili, mentre i potenti li rapinano del loro presente e del loro futuro; dove la gerontocrazia impera a scapito delle nuove generazioni; dove queste ultime si trovano spiazzate, bloccate in un eterno presente che non consente possibilità di crescita; e dove l’aspirazione alla realizzazione dei propri sogni e ambizioni viene esclusa a priori (c’è addirittura il corso, supportato da vignette videoproiettate, su come uccidere il proprio daimon fin da bambini).

L’esagerazione è la norma in questo spettacolo. Ma se sembra grottesca la scena del colloquio di lavoro gestita da una voce computerizzata che, alla fine, per la “prova pratica” ordina al candidato di uccidere un ostaggio, la cosa non risulta poi così surreale, se si pensa che ai colloqui vengono richieste le competenze e disponibilità più impensabili, anche oltre ogni ragionevolezza, buon senso e magari anche limite di legalità. E se può parere eccessivo che i rappresentanti della gerontocrazia imperante vengano scelti fra Paperon de’ Paperoni e la regina Elisabetta (pannelli presto abbattuti dalle palline scagliate dal pubblico), sarà forse utile fermarsi un attimo a riflettere che si tratta di un potere che domina in concreto, ma anche e soprattutto nell’immaginario (da Sophia Loren a Babbo Natale).

Ad ogni replica, lo spettacolo coinvolge un artista come “ospite speciale”. Gli vengono poste alcune domande-chiave: che lavoro fai? quanto guadagni? riesci a mantenerti col teatro? È un’indagine sociologica di un certo interesse. Ma, dopo, la situazione si ribalta: siamo in troppi – constata Sara Bonaventura – possiamo risolvere il problema facendo qualcosa insieme; ma non nel senso comune del termine: l’ospite di turno deve sfidare uno degli attori alla roulette russa, ne rimarrà uno soltanto e forse così, nel piccolo e incrinato mondo dell’arte e del teatro, ci sarà più spazio per gli altri.
E sembrerà atroce il passaggio in cui una giovane figlia stressata ingozza di fretta la povera madre, ormai scheletro in carrozzina, o troppo caricata la storia dello stuntman licenziato che sfascia una sedia; ma a pensarci bene non sono situazioni poi così distanti dalla realtà, e nemmeno troppo “deformate” o rimesse in forma ai fini del teatro.

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foto B-Fies (Alessandro Sala)

Be Normal! intreccia immagini e azioni surreali, così spietatamente eccessive fino a sfumare amaramente nel grottesco (e dunque nel reale, più che nella finzione), sorta di ready-made atroci che si rivoltano contro la realtà che li ha creati; riflessioni di un certo respiro socio-culturale, frammenti di indagini statistiche con tanto di grafici e proiezioni e anche qualche momento di rara poeticità. C’è altrettanta disarmante potenza nella mappa che descrive con un’animazione video l’invecchiamento della popolazione mondiale, prima del corso che istruisce su come affrontarla, quanto nel dialogo fra due casse che si chiedono come sarebbe lavorare al concerto dei Rolling Stones invece che al Teatro TaTà, e si preoccupano del futuro, del rischio perenne di non essere all’altezza e di venire sostituite (ma “non servono pezzi di ultima generazione – constata una delle due – perché siamo noi l’ultima generazione”).

Be Normal! è soltanto una giornata come le altre, con un orologio che ogni tanto ricorda il passare del tempo, il sunto di  un’Apocalisse quotidiana che bene o male ci si trova ad affrontare tutti i giorni per davvero. Comincia con un messaggio in segreteria lasciato da Shakespeare, che con forte accento inglese consiglia ai Sotterraneo di smettere di fare teatro; finisce con una coppia che sclera (apparentemente) perché non ha i soldi per ordinare la pizza a casa e con Perfect day di Lou Reed.

foto B-Fies (Alessandro Sala)

foto B-Fies (Alessandro Sala)

Quello di Teatro Sotterraneo sembra quasi prendere le forme di un teatro-inchiesta costruito per con il pubblico. Però è un teatro che non rinuncia allo spettacolo, ma che piuttosto ne usa gli strumenti per indagare la realtà e allo stesso tempo usa la realtà per fare spettacolo. Insieme alla scelta di un tema caldo a livello politico e socio-culturale, è presente con evidenza una ricerca linguistica di tutto rilievo, visibile ad esempio al livello drammaturgico.
Il testo esplode in ogni direzione oltre quelle consuete e si appropria di qualsiasi supporto espressivo. Non ci sono solo le parole da dire, espresse dagli attori; ci sono quelle delle canzoni, cantate o meno; i sopratitoli e le didascalie, quindi su un piano visivo; ci sono le voci registrate, computerizzate, automatizzate; e poi, quella potente del pubblico, su cui ultimamente sembra concentrarsi molto il lavoro Sotterraneo (non tanto nella direzione ormai trita e vana della libertà co-autoriale, ma ragionandoci proprio – sembrerebbe – come elemento drammaturgico in senso stretto). È una parola totale quella con cui sono scritti e rappresentati i testi di questo gruppo, che invade ogni livello della scena, attinge stimoli dal mezzo con cui viene veicolata e assume nuova forza dalla sua declinazione in luoghi e supporti altri rispetto alla parola detta (su cui comunque viene fatto un lavoro di spessore).

E se pure – per la scelta di un tema così caldo, così noto, oppure per i linguaggi di un certo disincanto post-pop con cui lo si affronta – qua e là si possa cogliere qualche rischio, c’è da rilevare il coraggio con cui questi artisti scelgono di parlare apertamente di questioni del genere, in maniera profondamente irriducibile, senza scampo e senza scrupoli (anche per se stessi). Alcuni diranno che è un discorso triste e amaro, magari già sentito; oppure, al contrario, si può pensare che è uno sguardo cinico e spietato; forse la ricchezza di questo approccio al teatro sta nel mezzo, fra l’irriducibilità con cui si guarda al mondo in cui si vive (quindi anche a se stessi, a noi stessi) e la necessità di raccontarla in scena (anche correndo il rischio di toccare nervi scoperti, temi caldi, questioni all’ordine del giorno su cui tanto è stato detto). In ogni caso, quello di Teatro Sotterraneo è un teatro che si assume la responsabilità di affrontare il proprio tempo, dentro e fuori dal teatro e dai suoi linguaggi. E di parlarne in pubblico senza mezze misure, in tutta la sua complessità. Il che, in questi anni, è già qualcosa di importante, che fa di molto la differenza.

Visto e rivisto a Meinherz – Drodesera 2013 e StartUp 2014, Taranto

Roberta Ferraresi

 

 

 

 

Per approfondimenti:

Daimon Project: intervista a Teatro Sotterraneo a cura di Elena Conti e Carlotta Tringali

#survival la pagina dedicata a Be Normal! su Dreamcatcher (progetto realizzato dal Tamburo con WorkOfOthers per Meinherz – Drodesera 2013, festival di Centrale Fies)

Visioni di teatro del nostro tempo. Da Taranto

L’idea di relazione per avvicinare StartUp
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Cresce bene e forte il festival StartUp di Taranto: al suo debutto due anni fa con l’organizzazione del Crest (leggi l’articolo), giunge ora alla terza edizione, con il coordinamento della rete Una.net, formata da sei gruppi dei Teatri Abitati pugliesi (oltre al Crest, Bottega degli Apocrifi, Armamaxa, La luna nel letto, ResExtensa, Teatro delle Forche).

Dal 24 al 27 settembre, si è sviluppata una rassegna dai livelli e dai volti molteplici: un’attività intensissima che si inaugurava ogni giorno in mattinata, con incontri di ampio respiro che hanno di volta in volta affrontato temi legati alle politiche culturali e alle questioni dello spettacolo in senso lato (il network IETM in vista di Luoghi Comuni 2015, le residenze e il nuovo Decreto, punti di vista sui linguaggi del contemporaneo affrontati dall’ANTC); per proseguire nel pomeriggio, con visite organizzate nel centro storico della città e più tardi incontri di carattere più “frontale” (presentazioni di libri, approfondimenti); e terminare ogni sera con diversi spettacoli, momento in cui si è colta l’occasione da un lato di presentare diverse produzioni pugliesi, dall’altro di portare a Taranto importanti lavori di altra provenienza (come le ultime opere di Teatro Sotterraneo o Roberto Latini).

Sono molti i livelli di approccio e approfondimento dello spettacolo che esprime questa piccola ma intensa rassegna, capace di combinare discorsi sulla critica alle questioni più calde della politica culturale, diversi modi, geografie, linguaggi teatrali, momenti di discussione pubblica e altri più informali. Comunità del teatro che si incontrano, è questo il pensiero più forte che rimane dopo StartUp: artisti, critici, operatori, spettatori di differente provenienza, età, approccio; sotto-territori che, pure facendo parte della stessa macro-area delle arti performative, spesso rimangono chiusi nei loro confini (di ruolo, geografici, ecc.) e invece a Taranto si vedono discutere insieme, incontrarsi, confrontarsi, in pubblico e in privato.
Una forte linea di lavoro di questa edizione, fra l’altro, è quella del tentativo di approccio alla città, con una serie di incontri e performance realizzati nel centro storico e pensati per un coinvolgimento più concreto e continuativo di cittadini e spettatori: piccole chiesette restaurate, musei, palazzi aprono le proprie porte al festival e, così, anche alla città che lo ospita.
Forse è l’idea di relazione lo strumento più adeguato per descrivere il senso di questo StartUp, che non a caso è ora organizzato da una rete di artisti e compagnie e altrettanto non casualmente è forse uno dei fondamenti più solidi dell’esperienza teatrale e della sua differenza rispetto alle altre arti o produzioni culturali.

Il teatro della crisi e dell’eterno presente

Salvatore Marci "Sette opere di misericordia e mezzo" - foto di Salvatore Magrone

Salvatore Marci “Sette opere di misericordia e mezzo” – foto di Salvatore Magrone

Molti degli spettacoli creati in questi ultimi mesi sembra vogliano essere un ritratto – certo vibrante e mosso – dei nostri tempi: riflettono (anche in senso letterale) un disagio inquieto a 360 gradi, quel gusto amaro che resta in bocca e nelle ossa quando ci si trova spiazzati, disarmati di fronte a un tempo bloccato; un eterno presente di cui è impossibile indovinare con sicurezza il passato e anche immaginare il futuro. È quello che capita ogni giorno, nell’arte ma anche nella più materiale quotidianità.
Si potrebbe dire che tante volte questo prenda (anche) le forme di un autoritratto generazionale; sulle scene di questi ultimi tempi lo si è visto spesso, e così anche a StartUp.

Sette opere di misericordia e mezzo di Salvatore Marci (25 settembre) è una storia esplosa nei diversi punti di vista dei protagonisti che la vivono. Ma non c’è trama, personaggio che tenga: in scena questi si presentano allo stato residuale, brandelli il cui senso si rivela man mano che lo spettacolo procede. Sono lei, lui, l’altro: Giovanna, moglie che diventa una strana puttana vestita di bianco davanti alla discoteca Paradiso; il marito coi suoi integratori; l’altro, giovane solo che la incontra una notte ed è destinato a risolvere (tragicamente? dipende dai punti di vista) il triangolo.

Roberto Corradino|Reggimento Carri "L'osso duro" - foto di Vito Mastrolonardo

Roberto Corradino|Reggimento Carri “L’osso duro” – foto di Vito Mastrolonardo

È un’umanità senza scampo, come quella che porta in scena la stessa sera Teatro Sotterraneo. Che si chiede: “cosa fai per vivere?”. Di questo parla Be Normal!, nuovo episodio di un teatro estremamente intelligente che si fa quasi inchiesta senza però rinunciare a darsi come spettacolo: dell’aver visto “le migliori menti della mia generazione perdersi e lasciar perdere”, come recita la presentazione, uccidere il proprio daimon e rinunciare ai propri sogni per sopravvivere.
Così, in qualche modo, anche i personaggi allucinati e allucinatori di Roberto Corradino, che presenta L’osso duro, tratto dalla narrativa kafkiana: Mario e Franco, facce diverse della stessa medaglia, si alternano in scena provando a dialogare con l’assente Nino (il pubblico?), dando vita a una vibrante riflessione sul ruolo dell’artista nel nostro tempo. Sono forse due possibili modi per affrontare il problema della sopravvivenza dell’arte: il primo che accetta di vendersi, l’altro che invece preferisce digiunare e morire.
Poi è così per gli allenamenti di corpo e di voce di Raskolnikov di Leonardo Capuano e, in diverso modo, lo Psychokiller di Ippolito Chiarello. 

Da Taranto. Altri modi di fare teatro e politica
Un discorso a parte va fatto per Capatosta di Gaetano Colella (anche in scena con Andrea Simonetti, per la regia di Enrico Messina). Anche in questo spettacolo si ritrovano quegli elementi di inquietudine e irrequietezza, quel senso di crisi e di frantumazione che abbiamo incrociato velocemente negli altri lavori in rassegna. Ma questo è qualcosa di stampo diverso. Prima di tutto perché è un lavoro sull’Ilva, gigantesco centro industriale tristemente noto alle cronache che sorge a pochi passi dal Teatro TaTà gestito dal Crest (e dalla messinscena dello spettacolo).
I temi che tocca questo spettacolo sono innumerevoli e non solo legati ai problemi dell’inquinamento, dello sfruttamento, delle malattie dell’industria tarantina: questioni come la (presunta) assenza di una classe operaia (che qui invece viene trasversalmente rideclinata rispetto a tutti i lavoratori precari di ogni settore e livello), dell’impossibilità della lotta di classe, della sostenibilità delle proprie scelte di vita e delle reazioni rispetto a quelle altrui travalicano di frequente il caso Ilva – seppure profondamente radicato e radicante nella messinscena – per parlare molto più ampiamente del presente. E delle possibilità di scampo.

Crest "Capatosta" - foto di Lorenzo Palazzo

Crest “Capatosta” – foto di Lorenzo Palazzo

In scena, due operai, un veterano e un neo-assunto. Due generazioni a confronto? Non solo, perché – scopriremo man mano – questi due hanno in comune molto più di quello che sembra. Il primo ormai abituato a chinare la testa, nella speranza di fuggire al più presto; il secondo, neolaureato a pieni voti e figlio di un ex-operaio, invece che l’Ilva l’ha scelta, per dare vita alla sua rivoluzione.

Per chi viene da fuori, il punto, come recita la voce di Enrico Castellani (Babilonia Teatri) nella potente audio-installazione dedicata all’Ilva che era possibile ascoltare nella splendida chiesetta di S. Andrea degli Armeni, è che “se non mi avessero chiesto di parlare dell’Ilva non ne saprei nulla. Se non ci fosse un teatro, dei Tamburi non saprei nulla” (e aggiunge: “dovrei vergognarmi a dirlo, dovrei vergognarmi”). Con la sua voce e con quella delle varie persone intervistate, possiamo riconoscere “tutta l’Ilva che c’è intorno a noi”, dai barattoli di pomodoro ai mobili ai mezzi di trasporto; e assaporare il ruolo che può ancora avere un privato cittadino nelle decisioni che vengono prese a suo discapito (con la storia di quel pastore che, scoprendo la diossina nei suoi formaggi, diventò l’innesco dello scandalo Ilva).
E qui si apre uno spiraglio, rispetto ai temi dell’impotenza, della crisi, del disastro di una generazione e non solo: quello della potenzialità del teatro, che può fare informazione, riflessione, politica. E forse cambiare qualcosa.

Nei termini del discorso che stiamo svolgendo e del filo che stiamo provando a seguire, Capatosta permette di fare un passo ulteriore: svincolandosi dalla dimensione puramente interiore e personale di senso del tragico che rischia spesso di convertirsi in crisi permanente o addirittura in dato contigente o peggio ancora generazionale, sceglie di affrontare di petto un problema concreto (e a dir poco spinoso, prossimo, vicinissimo). La dimensione dialogica su cui si fonda la struttura dello spettacolo, consente poi di approcciare la materia in termini dialettici, di comprendere come l’unicità e l’esclusività di un punto di vista (magari il proprio io, personale e biografico) vada sempre a giustapporsi a quelli altrui; cioè, prende in carico il problema del rapporto con l’altro, della comunità, della legittimità delle scelte, delle idee, delle posizioni; della complessità dei loro intrecci, dell’avvicendarsi delle motivazioni che spingono all’una o all’altra azione. E, infine e soprattutto, questo spettacolo non si ferma a fotografare l’esistente, non si lascia rapire dall’eterno presente e non resta disarmato di fronte all’impotenza e alla crisi, alla tragedia, ma, appunto, propone di immaginare una possibile via di scampo.

Drammaturgie esplose, estese, diffuse

Ippolito Chiarello "Psychokiller"

Ippolito Chiarello “Psychokiller”

Ma, questa dell’eterno presente di un’umanità senza scampo, non è una questione attiva solo sul piano tematico. Nel lavoro di Marci il testo esplode in diversi punti di vista che si avvicendano e poi si completano reciprocamente; in quello di Corradino si innesca un riverbero dialettico; nel monologo di Chiarello si concretizza vistosamente il ruolo del pubblico; Teatro Sotterraneo attinge a differenti livelli scenici, creando un dispositivo drammaturgico che acquisisce come emittenti (interpreti?) ben altri supporti oltre il testo detto. Ad esempio, come accade anche in altri esiti performativi degli ultimi tempi, alcuni degli spettacoli condividono la centralità della musica sia come fonte drammaturgica (quando l’attore dice i versi di grandi successi pop), che come possibilità espressiva (su tutte le possibilità, il canto). Nel lavoro di Sotterraneo, poi, sono testo drammatico anche i sopratitoli e le didascalie che accompagnano le scene.

È come se i temi della frammentazione del soggetto, della relatività disarmante dei punti di vista, del caos che ribolle in quest’era post-globale si riversassero anche sul piano del lavoro drammaturgico. Però non trasmettendo quel senso di impotenza, non riecheggiando la rassegnazione alla crisi permanente, non scivolando in istinti auto-consolatori; ma sfruttando lo spirito dei tempi per creare nuove ipotesi di approccio.

Di qui, si può tirare un piccolo filo (seppure parziale) per attraversare queste (e forse anche altre) creazioni performative degli ultimi anni. Le macerie in cui ci troviamo a scavare ogni giorno, le difficoltà di rapportarsi a inquadrare il reale, la resistenza e la sopravvivenza sono sì assunte sul piano tematico come inaffrontabile orizzonte definitivo; ma esse forse producono anche un riverbero di non poco interesse sul piano dei dispositivi drammaturgici utilizzabili. Storie esplose e gente senza scampo. Ma raccontate da un teatro che non ha ancora finito di inventarsi nuove risorse, modi, idee per sopravvivere; e forse addirittura provare ad andare avanti.

Roberta Ferraresi

Altre voci, visioni, riflessioni intorno a StartUp
una selezione degli articoli scritti in occasione del festival da alcuni colleghi che hanno voluto condividere i link su questa pagina