Recensione a Naufragio da The Coast of Utopia (La sponda dell’utopia) – regia di Marco Tullio Giordana
È un curioso incontro tra eccellenze quello che si svolge sulla scena di The Coast of Utopia (La sponda dell’utopia), andato in scena in prima nazionale al Teatro Carignano di Torino. Tre appuntamenti, distribuiti in una settimana, per un totale di più di 6 ore di rappresentazione e un cast di 31 attori, di cui è difficile negare le doti interpretative. E non stupisce che a cimentarsi con tale impresa sia stato chiamato un regista i cui meriti e riconoscimenti sono legati a un’altra epopea, questa volta del cinema italiano. Marco Tullio Giordana deve il suo successo – tra le altre cose – alla realizzazione de La meglio gioventù (miglior film nella sezione “Un Certain Regard” al 56° Festival di Cannes), una pellicola di 383 minuti capace di raccontare trentasette anni di storia italiana. Dettaglio non irrilevante, che molto dice sulle capacità di Giordana di sapersi muovere nel tempo della realtà come in quello della finzione. La poetica del regista si caratterizza per un approccio improntato alla ricerca di un senso civico e civile, come dimostrano quei Cento passi che con estrema maestria hanno saputo delineare i contorni di una Sicilia invasa dalla mafia, con le sue contraddizioni, le sue lotte e le sue resistenze, e il più recente Romanzo di una strage che sta attraversando le sale italiane.
Con The Coast of Utopia di Tom Stoppard – rappresentato per la prima volta nell’Europa continentale, dopo le maratone di Londra, New York e Tokyo – Giordana sembra scavare nuovamente in una Storia arroventata da insurrezioni, ma lo fa allontanando il pubblico dall’immaginario a cui lo ha abituato nei suoi film. Come scrive il regista stesso, il testo – suddiviso in tre parti (Viaggio, Naufragio e Salvataggio) – si muove lungo la «tumultuosa traiettoria dell’Utopia rivoluzionaria attraverso le peripezie della giovane élite intellettuale russa». Lontana dall’essere una celebrazione dei nomi che hanno segnato il panorama filosofico, letterario e politico dell’Europa ottocentesca, la parola di Stoppard si rivela efficace strumento per rivelare le debolezze e i nodi problematici delle nuove teorie politiche ed economiche che stavano sbocciando in un continente messo a ferro e fuoco dalle rivolte. Ed è proprio nella Francia della nascente Seconda Repubblica che si svolge Naufragio, la seconda parte della trilogia in cui si raccontano le vicende del filosofo Aleksandr Herzen (interpretato da un eccellente Luca Lazzareschi) e della sua famiglia, attorno ai quali ruotano personaggi quali Bakunin, Marx e il critico letterario Vissarion Belinskij.
Attraverso una tecnica cinematografica di cui Stoppard è grande conoscitore (basti pensare che nel 1985 firma la sceneggiatura di Brazil del talento dei Monty Python Terry Gilliam o richiamare il suo Rosencrantz e Guildenstern sono morti, premiato con il Leone d’Oro a Venezia nel 1990), il drammaturgo trascina lo spettatore per l’Europa, sospinto dai venti che mossero quegli stessi intellettuali pronti a lottare e – non sempre – combattere in prima linea per un’utopia che ancora oggi è difficile dirsi compiuta. Al di là di qualsiasi parallelismo con la cronaca dei nostri tempi e la necessità di reinstaurare una consapevolezza civile nei cittadini contemporanei, la scelta di mettere in scena un testo denso di amara autoironia rivela forse un risvolto più aspro, corollario di ogni lotta utopica. Grazie all’intelligenza registica di Giordana, gli attori riescono a muoversi agilmente tra registri linguistici differenti, passando con disinvoltura da dialoghi di un umorismo spensierato a introspezioni che rivelano gli angoli oscuri di personalità che hanno segnato la storia occidentale. Se infatti nella prima parte si assiste a quella che fu l’ascesa di nuovi pensieri capaci di costeggiare e guidare gli sconvolgimenti delle masse in sommossa e di cui si possono già scorgere le frizioni, è un più intimo ritorno a se stessi ed alla propria esistenza ciò che segna le vicende del secondo atto, nel tentativo di ritrovare una comunione tra l’ideale e la sfera personale. L’abilità della regia si dispiega con il procedere della rappresentazione, che viene a configurarsi come una continua sovrapposizione di piani, tempi e luoghi all’interno dei quali si muovono i personaggi, al pari delle scene che scorrono, mutano e silenziosamente si modificano. Ed è nelle pieghe di questi movimenti essenziali che l’utopia svela la propria debolezza, in cui si tratteggiano con precisione le perplessità di Herzen di fronte al divagare della violenza e del dolore, nella politica come nella vita privata.
Sebbene sia difficile elaborare un giudizio completo su di un’opera così complessa a partire dalla visione di un singolo frammento, è indubbio che Giordana sembra aver affrontato la sfida di questa regia attingendo alla sua esperienza nel campo della settima arte per muoversi in un testo estremamente cinematografico. Fatta eccezione per quei passaggi in cui ci si serve di immagini proiettate per definire il luogo dell’azione e che risultano – a volte – troppo didascaliche, Giordana sembra riuscire a scrutare dentro la polvere sollevata da rivolte, proteste e rivoluzioni, scorgendone gli elementi essenziali. Il minimalismo delle scene e delle luci (ad opera di Gianni Carluccio), i costumi (di Francesca Sartori e Elisabetta Antico) e le musiche di Andrea Farri contribuiscono a costruire una scena che permette ai dialoghi di Stoppard di abitare lo spazio con gli attori, lasciando che il senso delle parole si depositi negli spettatori costretti a confrontarsi con l’amarezza che contraddistingue le grandi rivoluzioni.
Visto al Teatro Carignano, Torino
Giulia Tirelli