Che cosa c’è dietro la parola comunità? Qual è l’urgenza, oggi, di fare un festival? Cosa si intende per cultura? È partita da questi interrogativi Roberta Nicolai, direttore artistico di Triangolo Scaleno Teatro, di Teatri di Vetro, e attualmente Presidente C.Re.S.Co., per dare vita a Singolare/Plurale. Un progetto che parte da un quartiere popolare di Roma e dalla nuova sede di Triangolo Scaleno Teatro, la Biblioteca Vaccheria Nardi, per tentare di comprendere il senso di identità e di appartenenza. Una “piazza di creazioni multidisciplinari, saperi, narrazioni individuali e collettive” per indagare il gesto individuale e quello collettivo. Un mese tra i palazzi e le strade di Tiburtino III, che ha visto alternarsi le azioni di fotografi e fumettisti, e gli incontri con gli abitanti, le Carrozzerie n.o.t, che hanno accolto gli ospiti internazionali, Miguel Bonneville e Marie Lelardoux, e il Teatro Brancaccino, dove il 25 febbraio avrà luogo una jam session teatrale, Absolutely live. Una lettura del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, con drammaturgia di Francesca Macrì, e con Lorenzo Acquaviva, Elena Arvigo, Roberto Corradino, Giandomenico Cupaiolo, Nicola Danesi, Roberto Latini, Valentina Picello, Lorenzo Profita, Roberto Rustioni, Federica Santoro, Andrea Trapani. «Il gioco dei giochi. L’azzardo degli azzardi», come ci racconta Roberta Nicolai.
«Il talento, le competenze, le sensibilità individuali entrano nel gioco collettivo. Con la jam session si copia la musica, non si interpone la zona delle prove, si vanifica la regia, si fanno una serie di azzardi. Francesca Macrì ha scritto la drammaturgia, riducendo il testo di Shakespeare, Gianluca Stazi, sound designer, registrerà il live, che sarà scaricabile su Liber Liber. Gli attori, che ricevono il testo 48 ore prima, insieme a un piccolo eptalogo, saranno tutti sullo stesso piano».
Quindi non mostrare un prodotto finito, ma concentrarsi sul processo?
«Restituire in tempo reale, vedere cosa succede. L’arte è sempre un rischio. Anche Tout est calme (trop) di Marie Lelardoux (presentato alle Carrozzerie n.o.t. il 15 febbraio, ndr), studio di un lavoro che debutterà a Marsiglia, mostra il processo. Mentre MB#6 di Miguel Boneville (realizzato anch’esso alle Carrozzerie n.o.t., ndr) è un flusso diaristico, autobiografico, un’indagine sull’identità. Se Teatri di Vetro dà risalto alla scena nazionale, qui si dà spazio all’internazionale. Ma anche per il festival, che quest’anno sarà probabilmente a settembre, mi piacerebbe avere un progetto di cooperazione, organizzare residenze. Toccare diversi paesi significherebbe avere un orizzonte ulteriore».
E parte proprio da Teatri di Vetro, la riflessione sull’esigenza, o meno, di fare festival…
«Mi chiedo che statuto abbia un festival oggi, rispetto alla confusione che si è creata e rispetto alla debolezza della creazione contemporanea, che io percepisco. Sono sempre più spaesata rispetto alla necessità di fare un festival: per mostrare cosa? Teatri di Vetro, nel 2007, nasceva dall’esigenza, anche politica, di tutelare una scena, sotterranea, underground, a Roma molto forte in quegli anni, che non c’è più. Inoltre un festival apre un tempo straordinario, convulso, ma ciò che veramente non ci prendiamo è il tempo ordinario. Adesso è proprio di tempo ordinario che abbiamo bisogno, anche per capire cosa c’è dietro la parola cultura. Devo capire cosa significa, oggi, cultura contemporanea. Devo chiedermi che cosa c’è dietro la parola comunità, comunità diffusa, comunità artistica, comunità del quartiere, per chi è nomade, per chi, come noi, ha cambiato luogo molte volte, da Strike al Palladium alla Vaccheria Nardi. Perché il luogo non è neutro».
Non senti, in questo momento, l’appartenenza a una comunità?
«Non so se sia possibile, ancora oggi, in una città come Roma, attivare delle piccole comunità e se quella artistica sia realmente una comunità. È chiaro che dopo tutti gli anni consumati in questo ambito, le mie relazioni sono quasi tutte lavorative. È chiaro che sento un’appartenenza, ma va alimentata, rimessa in discussione, non data per scontata. Non voglio mantenere delle posizioni, le voglio trasformare, le voglio cambiare, perché sento che la realtà muta continuamente. E credo che se vogliamo stare in qualcosa che continuiamo a definire contemporaneo dobbiamo stare in un ascolto costante».
Singolare/Plurale nasce da quest’esigenza?
«In qualche modo sì. Anche dietro la parola comunità stanno tanti significati. C’è il quartiere nel quale siamo arrivati, alla Biblioteca Vaccheria Nardi abbiamo trovato la bellezza, e pensato immediatamente di fare qualcosa a Tiburtino III. Poi è arrivato il bando Roma Creativa ed è stato proposto il progetto. I primi gesti di Singolare/Plurale sono legati a quel luogo e a quel quartiere».
Con quali attività?
«Diverse. I primi a essere intercettati sono stati gli anziani, con gli incontri tenuti da Francesca Macrì. Hanno la memoria del quartiere e una predisposizione all’oralità veramente straordinaria. Abbiamo pensato di far incontrare questi nonni, poi, con i bambini di una scuola elementare, per far raccontare ai primi le storie di un quartiere che ha avuto anche movimenti collettivi molto forti. È un gesto individuale che intercetta un gesto collettivo, un gesto artistico che intercetta una comunità che lo accoglie, e lo modifica. Manuel De Carli ha fatto un laboratorio sul fumetto con allievi del Liceo artistico. Ha lavorato drammaturgicamente su piccole storie, legate alla loro vita nel quartiere, e le 42 tavole prodotte saranno attaccate sulle pareti dei palazzi popolari, con la volontà di restituire le esperienze individuali in un contesto collettivo, infatti l’azione s’intitola ‘questo muro è una pagina bianca’. Alcuni fotografi hanno fatto ritratti al mercato rionale, sia ai clienti che ai commercianti, ritratti che saranno montati in alcune slide e rivisti quindi dai protagonisti. È un’indagine fotografica sul volto del quartiere, un gesto locale che diventa plateale».
E un gesto teatrale. L’interesse ultimo resta sempre la scena?
«Sempre. Continuerò a indagare cosa c’è dietro la parola teatro tutta la vita, e a cercare di capire che animale è, dove si muove, dove si sposta».
C’è una dimensione pratica, dunque, ma anche una direzione teorica. Cosa ci dici della tavola rotonda del 16 febbraio, del secondo appuntamento de La creazione contemporanea e il reale?
«L’incontro fra teorici e artisti mi interessa molto, è l’incontro tra due sguardi diversi. Il primo è stato a Teatri di Vetro 2014, ne sto programmando un terzo, per la prossima edizione del festival, inoltre c’è un progetto di pubblicazione con Editoria & Spettacolo. Un altro momento teorico è quello del 26/27 febbraio all’Opificio, Utopia or Looking for the Ideal Country, un meeting per ragionare sulla caduta dell’utopia, perché la carenza utopica della nostra società è quasi un sintomo di pochezza spirituale».
Carrozzerie not, Brancaccino, Opificio, ma la conclusione è a Tiburtino III.
«Sì, nel mercato. Abbiamo chiesto a chiunque di venire a insegnare qualsiasi cosa sappia fare, per dare a quel tempo una declinazione. Bisogna dare al tempo ordinario modalità di espressione. Con la locuzione “essere singolare plurale” Jean-Luc Nancy legge la realtà contemporanea, e io ho voluto sottolineare l’idea del movimento che questa locuzione aperta suggerisce: la realtà si può leggere dal singolare al plurale e dal plurale al singolare. Il nostro gesto singolare è sempre plurale, perché siamo immersi dentro un contesto, e viceversa. È una dinamica, un movimento. Singolare/Plurale è pratiche, è indagini, è movimento».
Intervista a cura di Rossella Porcheddu