Recensione a Un tram che si chiama desiderio – regia di Antonio Latella
Antonio Latella, in una bella intervista curata da Patrizia Bologna che correda il libretto dello spettacolo, dice che al cuore della propria versione di Un tram che si chiama desiderio c’è una frase di Blanche, protagonista del dramma di Tennessee Williams: «Non lo voglio il realismo». Si può partire da qui per parlare dell’allestimento e del lavoro di un artista che, negli anni, continua a confermarsi fra le eccellenze della regia e che in questo caso ha portato in scena, con una compagnia di generosissimi attori, uno spettacolo paradossalmente essenziale, fondato sulla pressione della parola – gestuale e feroce, scarnificata più che incarnata – che agisce su un palcoscenico ingombro di icone malandate, sostenuta dall’incredibile lavoro vocale degli attori in scena.
C’è uno stridore di fondo, a volte di difficile sopportazione, che richiama sempre lo spettatore al palcoscenico: abbagliato fin da prima che cominci lo spettacolo si destreggia, come gli interpreti, fra il labirinto di mobili e la jungla di cavi che è la casa dei Campi Elisi in cui si svolge tutta l’azione; con le luci in sala quasi sempre accese, il rumore bianco “a palla” ogni volta che c’è una lite, la colonna sonora dei Sistem of a Down e una recitazione sempre sull’orlo del proscenio, lo spettacolo provoca allo stesso tempo un inquietante ispessimento della quarta parete e le sue numerose fratture. Come il grande attore della tradizione o come i performer delle arti visive, quelli del Tram si rivolgono sempre al pubblico, quasi sfacciatamente; mentre tutto è allo stesso tempo descritto e previsto dalla “didascalia vivente” (Rosario Tedesco), cifra ormai distintiva del lavoro di Latella: il curioso cortocircuito di realtà e finzione richiama in causa continuamente lo statuto di essere e non essere personaggio e attore, sovraccarica l’attenzione dell’osservatore. Solo che l’interprete non prende posizione nei confronti di quello che sta dicendo o accadendo. Non si tratta di straniamento alla Brecht, nonostante ne siano presenti diversi elementi: l’immedesimazione dell’attore nel personaggio è un processo che avviene in scena, che cala sordidamente con la follia che coglie Blanche DuBois (Laura Marinoni), benestante del Sud che, ormai decaduta va a vivere dalla sorella Stella (Elisabetta Valgoi) e il cognato. Se all’inizio dello spettacolo nessuno esegue ciò che dice la didascalia e si resta immobili a guardarsi in giro, man mano ci si adegua e si concretizzano quei dettami. Dal minimalismo quasi astratto dell’inizio, le azioni si fanno sempre più mimetiche e realistiche, addirittura emotive, fino a sfiorare il melodrammatico nel secondo atto, quando anche l’abbigliamento, inizialmente pop, lascia spazio a costumi più “adatti” all’America degli anni Cinquanta: prima con i doppiopetto di Stanley (il marito di Stella, Vinicio Marchioni) e Mitch (Giuseppe Lanino), poi con l’elegante vestizione di Blanche e la gravidanza di Stella che, prima fatta da un cuscino, si converte in un pancione dichiaratamente di cartapesta… Si potrebbe dire che il Tram si concretizza, si materializza – ed è proprio questa la follia di Blanche, proprio per lei che non voleva realismi. L’esito è uno spettacolo straziante, sempre ai confini fra realtà e finzione, che se da un lato, con tutti quegli accorgimenti, impedisce di seguire dall’interno la disgregazione individuale e relazionale dei protagonisti, dall’altro trascina lo spettatore nei meandri stessi della follia rappresentata. Dopo scene e scene quasi interamente “rassicuranti” sulle linee dell’astrazione, ci si trova assorbiti nel mondo di Blanche, intrappolati a lottare con un’immedesimazione inaspettata, a trovare dannatamente fuori luogo quei tocchi di realismo, senza sapere bene il perché.
E poi c’è l’America. E non (o non solo) perché questo sembra esser diventato quasi un nodo del suo lavoro più recente – si pensi al ciclo dedicato a Via col vento – ma per l’intensità della concentrazione che il regista e i suoi attori dedicano all’immaginario pop americano, alla sua sempre sorprendente disgregazione, al suo disfacimento. «Io sono americano, nato e cresciuto nel più grande paese della terra e me ne vanto»: Stanley, il macho della situazione, lo balbetta a fatica. Sembra di barcollare in un quadro di Roy Lichtenstein. Sulle t-shirt di tutti ci sono Marilyn e Marlon Brando, la bandiera americana e Obama; ovunque, una quantità infinita di brillantini, strasse e paillettes. C’è il riferimento al cinema, alle sue tecniche (loop e repeat) in un palcoscenico che sembra un set, zeppo di microfoni e con le luci a occupare tutti i mobili; e poi musical e strobo, coca-cola e pop corn. Per non parlare del precisissimo tessuto sonoro, che va da Happy Birthday al Joe Cocker di 9 settimane e mezzo, dai Led Zeppelin ai Sistem of a Down.
Tanto ci sarebbe da dire sui rapporti fra (quel che resta dello) straniamento ed estetica pop, fra l’anti-immedesimazione più vibrante e l’horror delle icone che popolano ormai come fantasmi l’immaginario post-capitalista, in disfacimento quanto il dispositivo socio-economico che l’ha prodotto. E, pure, delle relazioni che queste polarità etiche ed estetiche si trovano a volte a intrattenere con le punte d’eccellenza della regia – che sembra anch’essa, come ogni canone del secolo scorso, carezzare una crisi di una certa consistenza. La risposta, in questo caso, si potrebbe trovare nell’esito di questa triangolazione che, nel pieno della messa in discussione del ruolo delle figure di mediazione (come il manager, il broker o, appunto, il regista), trova rinnovate formule di rapporto con il pubblico – al di là della ormai tradizionale opposizione fra immedesimazione e straniamento – e con la propria attualità, tentandone di mettere a punto i nodi e di inseguirne le tortuose genealogie.
Visto al Teatro Due, Parma
Roberta Ferraresi