Appunti su Poesia à la carte di Claudia Fabris, E se fosse lieve di Vasco Mirandola e Enrica Salvatori, Fiore del nulla di Tam Teatromusica
A volte è necessario privarsi delle cose. Cercare il limite tra “utile”, “superfluo” e “necessario”, per riaffiorare poi nel mondo con una nuova consapevolezza. Operano in questo senso i tre eventi svoltisi presso il Teatro delle Maddalene l’8 e il 9 aprile 2011. Attraverso i lavori di Claudia Fabris, di Vasco Mirandola con Enrica Salvatori e di Tam Teatromusica il teatro si trasforma in luogo di depurazione e ri-nascita, ma anche di riscoperta del potere dell’immaginazione e dello sguardo. Uno sguardo che segue direzioni diverse e che si posa, di volta in volta, su spazi dell’anima e dello spirito arrugginiti in quella che da molto tempo viene definita la società dell’immagine. In questo “trittico” di eventi, la scena rivela di nuovo l’enorme potenziale insito in uno spazio da millenni deputato ad ospitare — prima del cinema, del video e del cartone animato — la figura in movimento e in agire. I tre lavori sembrano riaffermare la necessità di recuperare una polisemia non legata a visioni veicolate e vincolate da schemi percettivi consolidati e abusati da sistemi quali la pubblicità, la televisione e, perché no, da tanto cinema che riempie i cartelloni delle multisale. Punto di partenza di questo processo che coinvolge attivamente lo spettatore, costringendolo a confrontarsi con i limiti e le fratture create da uno scarso esercizio delle proprie capacità immaginative, è la parola poetica, e con lei la voce.
Se si dovesse tracciare un percorso ideale per far riaffiorare di nuovo le potenzialità creative del cervello umano, bisognerebbe partire dall’esperienza offerta da Claudia Fabris con Poesia à la carte: menù alla mano lo spettatore sceglie le sue portate e attende che l’artista gliele serva, personalmente, intimamente. Tra le rocce presenti nello spazio antistante il teatro, un materasso ricoperto di velluto rosso accoglie l’affamato, che vi ci si adagia liberandosi dal peso della quotidianità, abbandonato all’abbraccio del caldo suono delle parole dell’interprete. Una voce in grado di trasformare un materasso in una vasca di deprivazione sensoriale, in cui è possibile cogliere in pochi, preziosissimi minuti il sapore di immagini che, appena accennate, scivolano veloci sullo schermo della mente.
Dopo questo rituale preliminare che permette di recuperare un contatto con la specificità dei propri processi immaginativi, lo spettatore è in grado di entrare a teatro con una visione depurata, pronto ad accogliere E se fosse lieve, spettacolo nato da un’idea di Vasco Mirandola. Servendosi delle parole di grandi poeti come Szymborksa, Gualtieri, Burroughs, Prevèrt, Dickinson e Neruda, l’attore conduce il suo pubblico in un viaggio onirico alla riscoperta di un mondo interiore tutto da costruire, da visualizzare. Evitando il facile rischio di inciampare in uno spettacolo in cui il corpo e la scenografia si fanno didascalia e parafrasi del testo poetico, Mirandola trasforma il palcoscenico in uno spazio totalmente altro, di cui è impossibile immaginare la natura o la collocazione grazie al timbro della sua voce, alla sua capacità di servirsi della parola come di uno strumento per sorprendere con accenti, cadenze e ritmi. Complici nella costruzione di questo universo fluttuante, le coreografie e il corpo di Enrica Salvatori che, come una musa, si muove leggera in questo scenario, trascinando e guidando lo stesso Mirandola in una danza di abbandono, di cui ogni elemento diventa parte integrante e interagente: le sculture e i disegni di Carlo Schiavon, le luci di Luca Diodato e i costumi di Silvana Galota. Lontano dal volere restituire un messaggio, la forza dello spettacolo risiede proprio nel far scorrere leggere e imperturbabili le parole in un flusso che si insinua gentilmente nello spettatore. Un gioco di non-costrizione che si rispecchia sul palcoscenico in quegli inseguimenti tra Mirandola e la Salvatori, in cui tutto sembra ridotto a gioco, emozione: la parola rincorre l’immagine e l’immagine rincorre la parola. Ed è negli scarti che si creano in questi incontri mancati che esplode la bellezza di entrambi. D’altra parte è lo stesso Mirandola a scrivere nel foglio di sala: «Non so (grassetto originale) se sia più giusto dire che questa sera sentirete o vedrete delle poesie, se ascolterete o se sarete toccati dalle parole, vi toccheranno delle parole, toccherete con mano, le parole toccheranno proprio a voi, del resto vi spetta, siete spettatori, avete aspettato per questo.»
Il percorso ideale si conclude con Fiore del nulla – Viaggio sentimentale nei paesaggi di Diego Valeri, ideato da Fernando Marchiori per la messa in scena di Michele Sambin. In questo lavoro che si muove tra i territori di confine del teatro, del play concert e della lettura interpretata, l’immagine ritorna sulla scena del Teatro delle Maddalene sotto forma di pittura digitale (Michele Sambin e Alessandro Martinello) per accompagnare la voce di Pierangela Allegro e le note di Michele Sambin. Coerentemente con la ricerca che la compagnia conduce sin dalla sua nascita, anche in questo omaggio al poeta padovano Diego Valeri la tecnologia non si limita ad asservirsi all’inno alla natura e alla bellezza insito nelle parole del poeta. Basta un microfono che, al pari di un fiore, sboccia da uno spazio verde che richiama i contorni di un giardino edenico per suggerire il ruolo riservato ad una categoria che ha sempre destato grandi dubbi e perplessità circa il suo statuto artistico ed estetico. Al pari della parola poetica, lo strumento tecnologico si presenta come frutto della natura e strumento dell’artista per decantarne e rifletterne la bellezza: mixer, computer, videoproiettore e microfoni si pongono al servizio di un’intelligenza creatrice tesa allo svisceramento di un’interiorità seriamente compromessa nella società dell’immagine. Non a caso, forse, i teli bianchi presenti in scena, posizionati a diversi livelli e profondità, suggeriscono un’intuizione che già Antonioni aveva espresso: «Ma noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’é un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima, fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa che nessuno vedrà mai.» Attraverso questo lavoro di alto lirismo in cui la leggerezza dell’interpretazione solleva l’animo e la luce corre veloce scivolando sulle parole, Tam Teatromusica sembra quindi suggerire al pubblico che, nonostante l’abuso di immagini elettroniche e digitali a cui si è sottoposti quotidianamente, è necessario oltrepassare l’apparenza più superficiale per poter svelare la pienezza del visibile, servendo di tutti i linguaggi e gli indizi disponibili.
Assumono quindi particolare valore le parole di Adolfo Mignemi che nel suo libro Lo sguardo e l’immagine scrive: «l’esistenza umana è andata assumendo una maggiore “organizzazione visuale” — come sostiene José Luis L. Aranguren — in cui accanto a una certa decadenza della parola scritta, affiorano sia i linguaggi formalizzati della cibernetica, sia l’immagine cosiddetta figurativa nella stampa, nella pubblicità, nel cinema, nella televisione. Ma l’immagine appare nel mondo odierno non come “sostitutivo” della parola, bensì come integrazione – talvolta insostituibile – di essa».
Visti ed esperiti al Teatro delle Maddalene, Padova
Giulia Tirelli