I Vico Quarto Mazzini insieme a Paola Aiello e Natalie Norma Fella sono in scena, da febbraio, con il loro Sei personaggi in cerca d’autore. Lo spettacolo ha debuttato al Teatro dell’Orologio di Roma, dove i VQM ci hanno concesso questa intervista, e l’11 aprile sarà al Teatro Kismet Opera di Bari (che lo ha coprodotto). Michele Altamura, Nicola Borghesi, Riccardo Lanzarone e Gabriele Paolocà si sono incontrati nel 2007 alla Civica Accademia d’Arte drammatica “Nico Pepe” di Udine e hanno intrapreso insieme un percorso di ricerca che li ha portati a produrrre Diss(è)nten (2010), Il sogno degli artigiani (2011), Boheme! (2013) e Amleto FX (2014). Dal 19 al 30 ottobre li abbiamo visti a Bologna, in veste di organizzatori del Festival 2030 (leggi l’approfondimento).
Nella loro messa in scena del testo pirandelliano interrogano l’autore e i suoi personaggi come fossero i protagonisti di un grande classico, attualizzando gli stati esistenziali dell’artista e ricercando tra le righe della pièce le ragioni di un mestiere e le spinte di una passione. Ad majora!
La prima domanda ne comprende due: che rapporto avete con il teatro di testo e perché avete scelto di mettere in scena un testo di Pirandello?
Gabriele Paolocà La sfida era affrontare un testo che non fosse nostro. È la prima volta che lavoriamo su qualcosa che non abbiamo scritto noi, anche se l’abbiamo resa nostra. La scelta di Pirandello nasce dalla volontà di lavorare su un classico italiano, un nostro autore, come si fa con Cechov e Shakespeare da quasi un secolo e trovando la libertà di prendere un testo, frantumarlo e renderlo strumento della nostra poetica. Pirandello è sempre un autore ostico, difficile, è impossibile riuscire a districarsi tra le sue trame.
Michele Altamura L’idea è nata al Teatro dell’Orologio, durante le repliche di Boheme! a marzo 2014. Pensavamo allo spettacolo successivo, volevamo lavorare su un classico e Fabio Morgan, il direttore del teatro, ci ha suggerito di lavorare su un autore con cui avessimo un rapporto di amore e odio, che, fondamentalmente, non ci piacesse. Secondo lui, come poetica di compagnia, se avessimo lavorato su testi e autori di cui siamo appassionati avremmo rischiato di essere compiacenti; lavorando, invece, con degli autori scomodi, avremmo tirato fuori il meglio, saremmo diventati più “cattivi”, non avremmo concesso nessuno sconto. Da quel momento, ci siamo chiesti quale Pirandello fare e abbiamo scelto il suo testo più famoso: Sei personaggi in cerca d’autore.
Rispetto al rapporto con il teatro di testo, sia con i nostri precedenti lavori – Diss(è)nten e Boheme! si fondano comunque su una drammaturgia di parola –, che nei lavori con altri artisti, da soli o in gruppo, ci è spesso capitato di affrontare testi: Gabriele ha lavorato con Le Belle Bandiere, io e Riccardo, e poi anche Gabriele, con Michele Sinisi. Dall’altra parte, però, cerchiamo sempre una deriva verso l’immagine, anche per creare un conflitto tra questi due elementi che poi si sintetizzi sulla scena.
Gabriele Paolocà È un trand divertente che ci sta dando sempre più gusto. Ultimamente, ho fatto un lavoro in solitaria sull’Amleto. Era una cosa che volevo fare da tempo e che consisteva in una destrutturazione totale del testo per parlare di me accanto ad Amleto. Nel caso dei Sei personaggi, più leggevo il testo meno sentivo quella libertà che mi dava Shakespeare, ma, forte di questa esperienza del 2014, mi sono detto: perché no?!
Come avete lavorato per questo spettacolo?
Gabriele Paolocà Siamo stati spudorati nell’ignorare tutto il carico che porta Pirandello, anche forti della lettura di molte critiche che parlavano dei Sei personaggi come di un’opera che racchiudeva tutto il pensiero pirandelliano. I critici del tempo, che amavano molto l’autore, gli rinfacciavano il fatto che avesse messo un capolavoro in mano a una storia senza un forte appeal. Abbiamo deciso di affrontare Piradello mettendoci dentro quello che amavamo. Mi appassiona Uno, nessuno e centomila e, in generale, l’evoluzione che Pirandello fa fare ai suoi protagonisti. Quindi, abbiamo preso il capocomico e gli abbiamo fatto fare un processo che assomigliasse a quello di Vitangelo Moscarda, attraverso questo suo essere libero che lo fa diventare il primo prigioniero di se stesso. Da questo ragionamento è scaturita una riflessione profondissima, almeno per me, sul mio mestiere. Il viaggio è partito dalla frase che la figliastra dice del capocomico: “per tentarlo, tante volte, nella malinconia di quel suo scrittojo, all’ora del crepuscolo, quand’egli, abbandonato su una poltrona, non sapeva risolversi a girar la chiavetta della luce e lasciava che l’ombra gl’invadesse la stanza e che quell’ombra brulicasse di noi, che andavamo a tentarlo…”. Da questa battuta, sono apparsi tutti i concetti pirandelliani, soprattutto quello di un’illusione più vera della realtà. La domanda che mi sono fatto è: e se questa illusione che ti sta portando a compiere i passi che compi ogni giorno ti stia fregando? Da quel momento, è partito il gioco attraverso il quale abbiamo trovato le fila di questo spettacolo. Così, ad esempio, il fatto che non avessimo i due giovinetti per il ruolo dei bambini è diventata una forza e non un limite. Quest’uomo disperato che decide di smettere di fare teatro, ma che non riesce a smettere di pensare al teatro, che incontra questi personaggi che gli chiedono di continuare a farlo e gli fanno capire che la loro è una richiesta totale, procede, durante la storia, nel tentativo di riempire un vuoto. Nel finale, però, ritorniamo all’ambiguità che è propria del finale pirandelliano. La cosa bella è che la domanda non è se il giovinetto sia morto o meno, ma se l’autore si ammazzi o meno.
Michele Altamura Nella creazione, in tanti momenti, abbiamo, secondo me, autorialmente, servito il testo. Ad esempio, tutta la parte in cui i personaggi si indicano segue alla lettera il testo pirandelliano.
Gabriele Paolocà Tutto lo spettacolo è costruito nell’ottica del processo creativo che vive l’autore. Ma era Pirandello ed è di una tenerezza infinita il fatto che lui sentisse profondamente di raccontare male la storia che lo ossessionava. Noi gli abbiamo solo dato retta.
Michele Atamura C’è una recensione di Artaud ai Sei personaggi in cui lui dà del genio a Pirandello e gli dice che chi non capisce questo testo, non capisce niente di teatro. Noi abbiamo assecondato l’autore fino alle conseguenze più estreme e, nostro malgrado, lui ha resistito, come sempre accade con i grandi testi. Mi è sempre piaciuto il fatto che “tradurre” e “tradire” siano due parole che hanno la stessa radice: per tradurre forse bisogna tradire. Secondo me, è una chiave di lettura importante per il teatro di tutti i tempi. Quello che per Pirandello era irrappresentabile, oggi è superato, quello che per lui era osceno, per noi è banale.
Nei vostri precedenti spettacoli, avete fatto anche delle regie collettive. Come funziona una regia collettiva e perché per i vostri Sei Personaggi avete scelto la regia individuale di Gabriele Paolocà?
Riccardo Lanzarone Non sappiamo come funziona una regia collettiva universalmente. La cosa interessante del nostro gruppo è che, all’inizio di un lavoro, ognuno di noi parte da un approccio diverso. Magari, uno partirebbe dall’immagine, uno dal testo, uno dal corpo. La prima cosa che abbiamo provato a fare, sia con Diss(è)nten che con Boheme!, è stata fare un passo indietro rispetto alla prima idea. Con Diss(è)nten il tema di partenza era la politica, la violazione della privacy – erano gli anni del berlusconismo –, l’esigenza di raccontare il nostro contesto. Trovato il macro-tema, ognuno di noi ha proposto una modalità di lavoro e il testo ci ha aiutato in corso d’opera. All’inizio volevamo fare una cosa particolare: Diss(è)nten doveva essere parte de La trilogia dell’apatia. Il primo studio era sulla politica, il secondo sulla religione, il terzo sulla società. Poi, Gabriele ha scritto il testo di Diss(è)nten e abbiamo cominciato a elaborarne più versioni, cambiandolo continuamente, finché non è arrivato, dopo almeno quattro repliche, il testo finale. In un caso, una proposta scenica suggeriva qualcosa a Gabriele, in un altro caso era la scrittura di Gabriele a suggerire qualcosa a noi.
Gabriele Paolocà La regia collettiva è un’autogestione condivisa e noi stiamo imparando attraverso questa autogestione anarchica e senza maestri. Quest’autogestione collettiva ha voluto che le nostre peculiarità diventassero i nostri punti di forza. Lavorando su questi punti di forza sono emerse alcune singolarità. Quindi, ad esempio, per i Sei personaggi io ho espresso la volontà di fare la regia. Pensavo stasera, mentre facevamo lo spettacolo, a quanto le parti più personali che fa Riccardo, che è il caratterista in questo caso, siano esattamente l’essenza di quello che Riccardo stesso ha portato a questa compagnia. Il lavoro che fa Michele sulla recitazione è quello che ha sempre voluto fare. Il lavoro che io adesso, per la prima volta, faccio da fuori è veramente quello che ho sempre voluto fare.
Quindi, è un’autogestione che ricerca e mette a frutto le potenzialità individuali?
Riccardo Lanzarone Esattamente. Anche perché la piccola differenza è stata che anche negli spettacoli precedenti ognuno di noi poteva stare sulla scena ma esercitando, sempre, uno sguardo anche esterno. In questo modo, non andavamo mai veramente a fondo e ci mettevamo molto più tempo. Con i Sei personaggi, in un mese di prove, è stato, per certi versi, molto più semplice. Abbiamo discusso insieme molte delle scelte ma, poi, Gabriele, da fuori, ha avuto sempre l’ultima parola.
Gabriele Paolocà Il Teatro Kismet ci ha concesso questa possibilità. Io, ad esempio, ho sempre voluto essere un light designer e, con questo spettacolo, ho avuto la possibilità di giocare con la mia passione. Siamo figli della nostra generazione, sappiamo fare un po’ di tutto, anche se noi siamo attori…
Infatti, volevo capire questo: come vi muovete tra tutte le funzioni di cui mi parlate e che ricoprite?
Riccardo Lanzarone Noi siamo attori, tutto il resto è stato fatto per esigenza, ma cercando anche il piacere del fare le luci, del dirigere, eccetera.
Che tipo di formazione offre la “Civica Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe” che avete frequentato e che, ultimamente, sta sfornando una serie di artisti che girano molto sulla scena nazionale?
Paola Aiello Durante il primo anno, ci si pone come obiettivo quello di destrutturare i clichés fisici, verbali, il modo di porre la parola e il corpo, e si lavora sull’improvvisazione a tema, oltre che sul gruppo e sull’ascolto. Il secondo anno è dedicato alla Commedia dell’Arte e ha come scopo sia quello di lavorare in gruppo – per questo, probabilmente, escono diversi gruppi dalla scuola – che di potenziare l’ascolto dell’energia comune. Il terzo anno si articola attraverso seminari più o meno lunghi. Il percorso triennale permette di abituarsi a reagire ad approcci molto diversi. È una preparazione un po’ schizofrenica, ma completa.
Riccardo Lanzarone Infatti, è una scuola che prepara artisti, fa lavorare molto in autonomia, lascia tanto tempo per provare. Inoltre, si fanno quelle che vengono chiamate Soireés, cioè delle serate in cui i singoli studenti, da soli o in gruppo, possono decidere cosa presentare al pubblico occupandosi della regia, della scelta del testo, eccetera.
Paola Aiello Sono anche occasioni per mettere a frutto tutti gli insegnamenti appresi durante il giorno e metterli al servizio di una ricerca personale, per sperimentarsi come autore o regista. È uno spazio prezioso che tante accademie non hanno ed è un modo per trovare delle affinità con altri colleghi. Un altro aspetto importante della “Nico Pepe” – e lo dico da pigra – è che è strutturata con un regime un po’ militare, per gli orari e per l’impostazione di alcuni rapporti, e questo riesce a stimolare l’anima disciplinata che c’è in ognuno di noi e insegna a riconoscere quello che si fa come un lavoro che ha bisogno di essere trattato con disciplina.
Michele Altamura Claudio (de Maglio, ndr) – il direttore –, vedendo gli studenti esausti, dice sempre che solo quando si tocca il fondo delle proprie energie si trova un’energia nuova, una qualità diversa.
Volevo chiedere a voi, ragazze, che non fate parte dei Vico Quarto Mazzini, come ha funzionato il vostro coinvolgimento nello spettacolo.
Natalie Norma Fella Abbiamo fatto tutti la stessa scuola, anche se loro tre, non Nicola (Borghesi, ndr), erano dello stesso anno. Ci siamo incrociati, ci siamo visti lavorare, abbiamo assistito a queste Soirées che erano delle occasioni per conoscersi, e ci siamo tenuti d’occhio, prima, e in contatto, poi. Il rapporto che c’è tra tutti noi, a livello personale, è molto forte. Il sostegno ai progetti di ciascuno di noi, anche al di fuori dell’accademia, è sempre stato molto attivo.
Riccardo Lanzarone La cosa bella è incontrare le persone in un periodo di formazione. A ciascuno di noi è capitato di dire che gli sarebbe piaciuto fare un lavoro con gli altri. Per la prima volta, questo è stato possibile, il sostegno del Teatro Kismet ci ha permesso di coinvolgere delle persone con cui avevamo un feeling.
Michele Altamura A livello politico, non poetico, ci siamo spesso interrogati sulla possibilità di chiamare delle persone, ma, non potendo garantire niente a nessuno, alla fine, abbiamo sempre rinunciato. Paola e Natalie scommettono con noi, però a partire da una base che ci fornisce qualche garanzia.
Riccardo Lanzarone Per la prima volta, abbiamo lavorato in condizioni umane, in un teatro. Abbiamo provato Boheme! in un luogo in cui non potevamo entrare prima delle sei di pomeriggio, quindi provavamo fino alle tre di notte. Abbiamo provato Diss(è)nten in una soffitta impolverata, con i giubbotti e i cappelli di lana. Nel caso dei Sei personaggi abbiamo lavorato in delle condizioni normali.
Come siete arrivati al Teatro Kismet?
Michele Altamura Siamo arrivati in Puglia vincendo un bando regionale nel 2010. Stavamo producendo Diss(è)nten e abbiamo cominciato a interfacciarci con le realtà anche più grandi di noi che esistono nella regione. Da pugliese e barese, il Kismet è stato il luogo dove ho iniziato a vedere il teatro, dove ho visto per la prima volta Emma Dante, Castellucci e tanti altri. All’epoca, avevamo ventiquattro, venticinque anni, con la nostra umiltà siamo andati dalla direttrice artistica, Teresa Ludovico, e le abbiamo chiesto di guardare i risultati del nostro lavoro. Lei, dopo un po’ di tempo, li ha visti e ci ha detto che ci avrebbe dato una possibilità nella sala piccola, in seconda serata, a fine stagione. È andata molto bene, il pubblico è stato molto contento. L’anno dopo hanno ospitato il Boheme! Al Kismet siamo arrivati così: in punta di piedi, proponendo uno spettacolo, e poi, pian piano, costruendo dei rapporti, non solo professionali ma anche umani con Teresa, ma anche con il Presidente (Augusto Masiello, ndr) e con il Direttore amministrativo (Vincenzo Cipriano, ndr).
Riccardo Lanzarone È come se loro fossero i testimoni dei nostri passi. Quando siamo arrivati in Puglia eravamo un po’ spaesati, non sapevamo cosa fare, e poi, a poco a poco, loro hanno assistito a tutte le cose che abbiamo fatto.
Paola Aiello Quello che si vede molto chiaramente da fuori è che, da parte del Kismet, della direzione artistica, c’è una fiducia senza necessità di sorveglianza, una fiducia non solo dichiarata ma quotidiana. È una cosa da strillare a voce alta perché è una cosa che poi paga.
Chi sono i vostri maestri?
Michele Altamura Romeo Castellucci per noi è molto importante. Sappiamo che non arriveremo mai a fare il suo tipo di teatro, ma la sua poetica è molto presente.
Gabriele Paolocà Io vado da Shakespeare a Aphex Twin.
Michele Altamura De Berardinis – che ha preso i classici e li ha rivoltati completamente, centrandoli sull’attore – e Carmelo Bene.
Riccardo Lanzarone Per me: Castellucci e De Berardinis.
Natalie Norma Fella Per me, Nina Simone.
Paola Aiello Gianni Rodari.
A cura di Nicoletta Lupia